L’obiettivo di crescita divide il fronte della politica cinese
I due volti dell’economia: gli indicatori rallentano mentre le Borse volano
Si alza il sipario sulla Plenaria del Parlamento cinese in un contesto punteggiato di contraddizioni che peseranno sul futuro prossimo dell’economia cinese.
Il Work Report del premier Li Keqiang indicherà oggi gli obiettivi di crescita del Pil per il 2019 (non meno del 6%), ma gli occhi degli addetti ai lavori sono puntati altrove.
A giorni la Banca Centrale renderà noti i dati della bilancia dei pagamenti mentre le Dogane cinesi riveleranno l’import-export di febbraio.
Sono due facce di una medaglia in cui economia reale e finanziaria cinesi divergono sempre di più. Una drammatica separazione che acutizza la spaccatura tra chi - come il premier Li Keqiang - vuole una crescita ragionata e chi (in pratica, tutti gli altri) persegue, invece, una crescita a tutti i costi.
Non è poco in un sistema politico scolpito nel granito, segno che le criticità sono e restano molto forti nel sistema, a aprtire da quello economico-finanziario.
Il fatto è che ai pessimi dati dell’andamento del manifatturiero l’indice ufficiale PMI di febbraio è sceso a 49.2, il peggior dato dal 2016, sotto la soglia critica del 50% - si contrappone l’euforia delle borse cinesi, galvanizzate dall’andamento dei negoziati Usa-Cina.
L’indice MSCI dei mercati emergenti ha appena steso un tappeto rosso alle blue chips cinesi, il cui indice di inclusione passerà dal 5 al 20% in tre mosse (10% in maggio, 15% in agosto, il 20% in novembre): un’apertura significativa, anche se graduale, ai capitali e ai mercati esteri che, peraltro, dovrebbe scacciare l’incubo cinese della fuga dei capitali in senso opposto, all’estero. I fondi che includono società cinesi dovranno investire di più, alimentando i flussi di valuta estera nel Paese.
Se il 2018 delle borse cinesi è stato disastroso (-25%), l’inizio d’anno è, invece, tutto nel segno del Toro con l’indice Shanghai Composite a +20%, il numero dei nuovi investitori cresciuto del 53% a oltre 310mila unità mentre tra i dieci migliori performers dell’indice MSCI c’è stata nientemeno che la cinese ZTE, la rivale più piccola di Huawei. Non solo, Shenzhen - che è legata alla borsa di Hong Kong da una stock connection -, ha superato l’ex colonia britannica in quanto a Pil, movimentando in un anno un volume di beni e servizi pari a 363.6 miliardi di dollari.
Le aziende, però, sono a corto di soldi, tanto che la China Banking and Insurance Regulatory Commission (Cbirc), ha invitato una settimana fa le banche statali ad aumentare del 30% i prestiti alle Pmi.
Per la prima volta il costo del denaro lieviterà a causa della popolazione attiva ferma a 776 milioni a fine 2018, 540mila unità in meno rispetto all’anno precedente, tutta “colpa” dell’invecchiamento della popolazione.
Non solo. Le imprese straniere stanno ritardando i progetti di investimento, restano alla finestra in attesa della fine dei negoziati UsaCina e del varo della riforma degli investimenti stranieri che sarà approvata dal Parlamento in Plenaria in questi giorni in base a un progetto voluto da Li Zhanshu, numero tre della nomenklatura cinese.
Il sentiment delle imprese americane, in particolare, rivela un Report della Camera di Commercio americana in Cina, è passato drasticamente dal cauto ottimismo al cauto pessimismo. Il negoziato che fa volare le borse, dunque, deprime l’economia.
Wang Jingwu, responsabile dell’Ufficio per la stabilità finanziaria della Banca centrale ha promesso che la Cina non sarà inondata da fiumi di denaro, mentre sarà difficile arrestare la caduta dello yuan - accusato dagli Usa di essere usato in maniera impropria - il che, se può sostenere le esportazioni, è anche un deterrente agli investimenti in asset denominati in yuan. Non ci sarà, comunque, un’abbuffata di credito, semmai il credito sarà erogato in modo “misurato”.
Si risente l’eco della parola d’ordine del 2018, evitare i rischi sistemici. Li Keqiang ne parlò nel Work Report dell’anno scorso. Per far questo le aziende sono state costrette a far pulizia (“deleveraging”), obiettivo raggiunto anche se a caro prezzo, una marea di default.
La Cbirc sostiene che grazie a tutto ciò il rapporto tra debito totale e Pil si sarebbe stabilizzato invertendo la tendenza degli anni precedenti quando il rapporto è aumentato di una media di oltre 10 punti percentuali. Le grandi pulizie si sarebbero positivamente proiettate dal livello micro al macro.
Ma la saga dei default non è finita, se la Cina in questi giorni registra il primo default in dollari in vent’anni da parte di una grande impresa statale come Qinghai Provincial Investment Group Co., un real estate developer che ha fallito il pagamento degli interessi su 300 milioni di obbligazioni denominate in dollari USA offshore.
Intanto, però, la Cina quest’anno potrebbe incassare il primo deficit delle partite correnti in 25 anni dopo che il surplus è precipitato nel 2018. Grandi eccedenze hanno significato un flusso costante di capitali verso la Cina, ora però bisogna trovare altre fonti di finanziamento del sistema.