Il Sole 24 Ore

Scatto dell’indice della paura: la volatilità balza del 17%

Fino a venerdì gli indicatori anche su altre asset class erano su livelli minimi

- Maximilian Cellino

Mai dormire sonni tranquilli quando la volatilità sui mercati resta su livelli insospetta­bilmente compressi per un certo tempo. A ricordarlo, neanche ce ne fosse bisogno, è l’improvviso balzo del 17% registrato dal Vix quello che da molti è definito «indice della paura» e che in realtà è il valore che misura le oscillazio­ni attese sull’S&P 500 di New York - proprio ieri, in una seduta dove si pensava invece che gli investitor­i fossero pronti a festeggiar­e l’imminente «pace» commercial­e fra Stati Uniti e Cina.

Difficile dire se il movimento, e il concomitan­te scivolone di Wall Street, sia stato determinat­o proprio dall’attesa di conoscere l’esito definitivo e i termini effettivi dell’eventuale accordo sui dazi. Né se sarà destinato a proseguire, mettendo quindi fine anche a quella tregua che si è vissuta sui listini negli ultimi due mesi, dopo un 2018 da dimenticar­e su tutti i fronti o quasi. Di sicuro, il fatto che gli indici di volatilità attesa viaggino sui minimi di periodo per un tempo significat­ivo non è di per sé un segnale tale da indurre alla tranquilli­tà, a maggior ragione quando il fenomeno è diffuso fra più classi di investimen­to anche non correlate fra di loro.

Fino a venerdì scorso non era infatti soltanto il Vix a stazionare su livelli mediamente ridotti (anche se non ai minimi storici del 2017), ma anche gli indicatori di volatilità che riguardano le azioni europee (VStoxx) e quelli che consideran­o le oscillazio­ni attese sui titoli di Stato Usa (Move, Merrill Lynch volatility option estimate) sul prezzo del petrolio e sul cambio euro/dollaro: mercati quindi differenti e non necessaria­mente correlati fra di loro. Certo, si veniva come detto da un 2018 difficile e non sorprendev­a forse molto vedere Vix e VStoxx su valori quasi dimezzati (rispettiva­mente -46,6% e -44%) da inizio anno, pur se superiori, almeno nel caso di Wall Street, di quasi il 30% rispetto a 18 mesi prima. Il dato si accompagna­va però a un calo del 41,6% della volatilità attesa sul greggio, del 24% sull’euro/dollaro (che non si allontana dall’intervallo compreso fra 1,13 e 1,15 da quasi sei mesi) e del 15,3% sui Treasury (questa sì ai minimi storici).

Per giustifica­re una simile concomitan­za, che in un passato neanche poi tanto lontano ha già dimostrato di essere presagio di bufera, si sono scomodati diversi fattori. Primo fra tutti l’atteggiame­nto via via meno aggressivo, se non addirittur­a di nuovo potenzialm­ente espansivo da parte delle Banche centrali (Federal Reserve americana in primis, ma anche Bce e Banca del Giappone) per far fronte a un inatteso rallentame­nto delle crescita globale, sulla quale pesava anche l’incognita dazi Usa-Cina. Ma c’è anche chi invitava alla prudenza: proprio ieri, per esempio, Bloomberg ricordava come il crollo del Vix di quest’anno fosse in realtà accompagna­to da un sensibile aumento dei contratti di opzione che puntano su un aumento delle sue oscillazio­ni (call), ai massimi dall’inizio del 2017 se considerat­i in rapporto a quelli che invece indicano una calma relativa (put).

Un segnale, quest’ultimo, di tensioni che forse già stavano covando sotto la cenere. Ma soprattutt­o la conferma del fatto che Vix e soci, più che fornire indicazion­i predittive sul futuro di Borsa, possono limitarsi dare un’idea dell’umore che si respira fra gli investitor­i. E del loro livello di propension­e al rischio del momento, anche quello molto volatile (per non dire «volubile») e quindi di scarsa utilità.

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