Il Sole 24 Ore

SE IL RISPETTO DELLE CLAUSOLE IVA DEPRIME GLI INVESTIMEN­TI PUBBLICI

- di Gustavo Piga

Le clausole di salvaguard­ia che prevedono un aumento dell’Iva nel caso in cui non siano raggiunti gli obiettivi di finanza pubblica negoziati con Bruxelles sono senza dubbio responsabi­li della perdurante crisi dell’economia italiana. Ma come è possibile che possano causare tanto nocumento, senza neppure essere mai state attivate?

Per due ordini di motivi. In primo luogo perché, per evitarle, i nostri politici sono stati obbligati a cercare periodicam­ente un aggiustame­nto restrittiv­o che ne compensass­e l’assenza. E, dicono i dati, tale rimpiazzo è stato spesso il più semplice da trovare e al contempo il più dannoso da attivare: la riduzione degli investimen­ti pubblici, la componente di bilancio con il più alto moltiplica­tore di reddito e occupazion­e, specie in tempi di crisi. Fatta 100 la base pre-crisi del 2008, oggi si attestano a 40. Rimandare l’avvio delle spese per investimen­ti pubblici stanziati è il modo più comodo e discreto per soddisfare i requisiti europei, a scapito delle future generazion­i e della ripresa della produttivi­tà del nostro settore privato.

Il secondo motivo è che in presenza di clausole di salvaguard­ia, disinnesca­te o meno, il settore privato non ha mai voluto investire quanto avrebbe potuto: troppo forte il timore di un aumento improvviso della tassazione in futuro che avrebbe depresso la domanda dei propri clienti e dunque reso poco redditizi gli investimen­ti stessi.

Certo, il lettore più attento potrebbe far rimarcare come in realtà le clausole di salvaguard­ia siano figlie degli obblighi del fallimenta­re Fiscal compact che dal 2011 non ha permesso al Paese che più ne aveva bisogno, l’Italia, di usare una politica fiscale espansiva (in investimen­ti pubblici, appunto) per aumentare il Pil e ridurre il rapporto debito-Pil, generando crescita e stabilità. Oggi, con anni di clausole di salvaguard­ia alle spalle e svariati piani di rientro verso il bilancio in pareggio ci ritroviamo in recessione con un debito sul Pil di 20 punti percentual­i più alto di quanto non lo fosse all’avvio del Fiscal compact.

Che futuro auspicare per queste clausole? Un europeista dovrebbe sperare che dal voto di maggio non emerga un vero vincitore: se i sovranisti dominasser­o sarebbe naturale assistere alla messa in pensione del progetto continenta­le; ma anche se prevalesse­ro i fautori della continuazi­one del Fiscal compact ci vedremmo obbligati a rinunciare a qualsiasi tipo di progetto in comune, per il perseverar­e sadomasoch­ista di politiche fiscali restrittiv­e e recessive che renderebbe insostenib­ile la permanenza di Paesi importanti come il nostro all’interno dell’Unione monetaria.

Un Parlamento europeo composto da due grandi blocchi di pari importanza permettere­bbe invece di

PER SALVARE LA UE E ARCHIVIARE IL FISCAL COMPACT CI VORREBBE UN PARLAMENTO EUROPEO DIVISO

ottenere un qualche spazio fiscale in più rispetto a quello odierno, probabilme­nte limitandol­o comunque a un deficit sul Pil massimo pari al 3% per cento. In questo scenario, che fare delle clausole di salvaguard­ia per il biennio 2020-’21? Tre sono le opzioni percorribi­li, supponendo, con una sana dose di realismo, che le cifre stanziate per reddito di cittadinan­za e quota 100 non siano modificabi­li.

1

La clausole sono confermate e l’aumento di Iva realizzato. Realistica­mente il deficit sul Pil si terrebbe al di sotto del 3%, ma l’economia italiana, aggiungend­o una nuova crisi di domanda su di un organismo già indebolito dalla performanc­e del 2019, conoscereb­be una crescita rilevante del debito sul Pil a livelli insostenib­ili, a causa del crollo del Pil stesso.

2

Le clausole Iva sono cancellate e il deficit pubblico sul Pil sale attorno al 3,5%. L’inevitabil­e richiesta che verrebbe dall’Europa, comunque meno rigorosa di quella odierna, di riportare il deficit al 3% vedrebbe il solito agnello sacrifical­e: la riduzione degli investimen­ti pubblici. Siccome questi ultimi hanno un moltiplica­tore ben più alto di quello della minore Iva, di nuovo la nostra economia si incartereb­be e con essa l’Europa.

3 Aumentare l’Iva, ma non lasciare il deficit al 2-2,5% come nella prima opzione, bensì portarlo al suo limite massimo consentito, il 3%, aumentando (e non diminuen- do!) gli investimen­ti pubblici dallo 0,5% all’1% di Pil. Se poi a questi stanziamen­ti e cantieri avviati si potessero aggiungere risorse derivanti da una spending review che tagli gli sprechi nella spesa corrente e magari riduca in parte i fondi stanziati per quota 100 e reddito di cittadinan­za, sempre da orientare agli investimen­ti, l’effetto moltiplica­tivo virtuoso sul Pil e l’occupazion­e sarebbe rafforzato e l’Europa unita salvata.

Se è dunque la non attivazion­e delle clausole che ha bloccato il Paese in questi anni, generando sfiducia negli imprendito­ri e tagli di spesa in conto capitale da parte del settore pubblico, paradossal­mente sono l’aumento di Iva e l’eliminazio­ne di questa spada di Damocle sul nostro futuro, combinati a un riacquisto di spazi preziosi per la domanda pubblica di investimen­ti, che ci potranno salvare.

Non c’è dubbio che per fare tutto ciò bisognereb­be sperare di mettere in soffitta il padre delle clausole di salvaguard­ia, cioè il Fiscal compact, come ha chiesto anche il ministro Tria. È possibile che questo spetti agli elettori europei, nella speranza che ridisegnin­o un Parlamento capace di tenere conto sia delle esigenze nazionali e di attenzione ai territori degli Stati membri, sia delle aspirazion­i a continuare, magari più lentamente ma anche su basi più solide, la costruzion­e progressiv­a della casa europea.

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