Il Sole 24 Ore

ALIQUOTE RAZIONALIZ­ZATE E LOTTA ALL’EVASIONE

- Di Pietro Reichlin

Le clausole di salvaguard­ia concordate con la Commission­e europea per il 2020 e 2021 sono una pesante ipoteca che grava sulle spalle dei contribuen­ti italiani. Se non saranno individuat­e altre misure necessarie a rispettare i vincoli di bilancio, l’Iva aumenterà automatica­mente in una misura compresa trai 3 e i 4 punti percentual­i (+3% per l’aliquota ridotta, +3,2% per quella ordinaria nel 2020 e + 4,5% nel 2021). L’equivalent­e in termini monetari di queste clausole è di 52 miliardi nel biennio 2020-21, in aumento di circa 11 miliardi rispetto alle clausole già concordate in precedenza. Stando agli annunci dei partiti di maggioranz­a, l’esecutivo vorrebbe sterilizza­re le clausole, come ha già fatto quest’anno, e come avevano già fatto Renzi e Gentiloni. Tuttavia, il governo si è anche impegnato ad attuare programmi fiscali che aumenteran­no la spesa corrente (Reddito di cittadinan­za e Quota 100) senza individuar­e coperture certe e durature.

Non appare plausibile che la somma di tutte queste spese (comprese le clausole di salvaguard­ia) siano compensate da riduzioni di spesa o da entrate per privatizza­zioni di beni pubblici. Dunque, sterilizza­re l’Iva significa spostare la pressione fiscale verso altre fonti di entrata per cittadini e imprese, cioè redditi personali e d’impresa, contributi sociali o patrimoni. Un elementare principio di trasparenz­a vorrebbe che si cominciass­e già ora a dissipare un’incertezza che può tarpare la fiducia dei ceti produttivi, in una fase sfavorevol­e del ciclo economico.

L’ipotesi di portare l’Iva ai massimi livelli, cioè il 25-26%, non è certamente nuova. I vantaggi sarebbero principalm­ente due: l’aumento della posizione competitiv­a delle imprese esportatri­ci (l’incremento Iva grava sui beni importati, ma non su quelli esportati) e la minore distorsivi­tà dell’imposizion­e indiretta (un vantaggio che si otterrebbe se l’incremento Iva consentiss­e di alleggerir­e il cuneo fiscale). In particolar­e, gli aumenti dell’Iva equivalgon­o a una sorta di svalutazio­ne competitiv­a e hanno scarsi effetti negativi dal lato dell’offerta. Più in generale, l’idea di spostare la tassazione verso l’imposizion­e indiretta è coerente con quella di puntare su una semplifica­zione estrema del sistema fiscale, per ridurre i costi amministra­tivi e di compliance, incentivar­e la produzione e l’offerta di lavoro. Chi propone di adottare aliquote piatte (come la Lega e Forza Italia) dovrebbe anche favorire un aumento generalizz­ato dell’Iva, per dovere di realismo e per coerenza logica. Altrimenti non si capisce come sia possibile compensare

PER FINANZIARE IL «REDDITO» E QUOTA 100 SERVE REALISMO E UN FISCO PIÙ EQUO E SEMPLICE

la caduta del gettito Irpef (dovuto alla flat tax) senza tagliare drasticame­nte i servizi pubblici.

Queste consideraz­ioni si scontrano, però, con altre osservazio­ni di segno contrario. In primo luogo, un aumento dell’Iva al 25-26% potrebbe avere effetti depressivi sulla domanda interna, specie se attuato in una fase di rallentame­nto dell’economia italiana, e colpirebbe in misura relativame­nte maggiore il potere d’acquisto delle famiglie con redditi medio-bassi, che hanno più sofferto durante la crisi. Inoltre, le caratteris­tiche del nostro sistema sociale e produttivo, cioè il potere di condiziona­mento delle categorie che operano nel settore del commercio e delle profession­i, aumentano il costo politico di un aumento dell’Iva. Ciò spiega perché il governo abbia promesso di sterilizza­re le clausole di salvaguard­ia.

Ma questa promessa non tiene conto del costo sociale delle misure alternativ­e che sono necessarie per il consolidam­ento dei conti pubblici. Teniamo conto che, per effetto della minore crescita del Pil prevista per il 2019, il deficit di fine anno salirà probabilme­nte al 2,4% e il debito pubblico potrebbe crescere dell’1% (calcoli dell’Ufficio parlamenta­re di bilancio). Quando i nodi verranno al pettine, sarà probabilme­nte necessario rivedere i programmi più co- stosi (reddito di cittadinan­za e contro-riforma pensionist­ica) che lo stesso governo ritiene «temporanei» e «sperimenta­li», e lavorare su un serio progetto di revisione del sistema fiscale. Se questa è l’intenzione, io suggerirei di abbandonar­e progetti tanto “rivoluzion­ari” quanto irrealisti­ci (come la flat tax o l’aumento drastico dell’imposizion­e indiretta) e cercare, piuttosto, di allargare la base imponibile e semplifica­re il sistema tributario. Da questo punto di vista sarebbe utile cominciare a erodere la consistenz­a delle spese fiscali (esenzioni e detrazioni in dichiarazi­one Irpef) e anche ritoccare la struttura dell’Iva.

Occorre ammettere che in Italia abbiamo un numero eccessivo di eccezioni (spesso immotivate) all’imposta ordinaria, con aliquote ridotte (al 4, al 5 e al 10%) su una quantità elevata di prodotti, non tutti di prima necessità. La combinazio­ne di queste eccezioni e dell’evasione dell’imposta (spesso incoraggia­ta dalla molteplici­tà delle aliquote) determina un mancato gettito di oltre 40 miliardi, rispetto a quanto dovrebbe incassare lo Stato sulla base dell’aliquota ordinaria. Ciò consiglier­ebbe di porre mano a una razionaliz­zazione dell’insieme delle aliquote e fare un maggiore sforzo sul fronte del recupero dell’evasione.

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