Perequazione pensioni sul cumulo reale
Non si può considerare anche la parte non corrisposta di reversibilità
L’adeguamento della pensione all’inflazione deve essere effettuato sull’importo effettivamente erogato, se più basso di quello nominale quale conseguenza del limite alla cumulabilità dei trattamenti ai superstiti. Così ha deciso la Corte di cassazione con la sentenza 6872/2019, che ha visto contrapposti un pensionato e l’Inps.
La legge 247/2007 ha introdotto il blocco della perequazione nel 2008 per le pensioni di importo superiore a otto volte il trattamento minimo (quindi, ai tempi, oltre i 46.172,12 euro). In base all’articolo 1, comma 41 della legge 335/1995, il trattamento di reversibilità può essere incassato solo parzialmente a fronte di altri redditi già incassati dal beneficiario. In particolare, se il reddito è superiore a tre volte al trattamento di pensione minimo, può essere cumulato a tale importo il 75% della reversibilità; se il reddito è superiore a 4 volte il minimo, la cumulabilità è del 60%; se il reddito è oltre le 5 volte, la cumulabilità è del 50 per cento.
Un pensionato, che già riceveva una pensione diretta superiore a cinque volte il minimo, si è visto negare dall’Inps la perequazione nel 2008 perché, aggiungendo l’intero importo della pensione di reversibilità, avrebbe superato la soglia di otto volte il trattamento minimo. Il pensionato ha presentato ricorso in quanto, dato che riceveva la pensione di reversibilità al 50%, nei fatti non superava la soglia di otto volte il trattamento minimo. In primo e secondo grado i giudici hanno stabilito che l’Inps deve tener conto dell’importo effettivamente erogato.
L’istituto di previdenza ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che, a fronte di importi pensionistici elevati, il trattamento di reversibilità non serve per far fronte alle esigenze di vita primarie e quindi quest’ultimo può essere considerato nel suo valore intero, con conseguente mancata perequazione di tutta la pensione.
La Suprema corte, però, non è dello stesso avviso e sottolinea che la legge 247/2007 fa riferimento esplicito all’articolo 34, comma 1 della legge 448/1998 che regola la perequazione. Quest’ultimo parla di “trattamenti corrisposti” e non di quelli “genericamente a carico” del sistema previdenziale. Ne consegue, secondo i giudici, che «il legislatore del 1998 ha inteso parametrare alle somme effettivamente percepite dal pensionato, e non già a quelle in astratto dovute, la decurtazione» derivante dal mancato adeguamento.
I giudici osservano inoltre che il prelievo fiscale viene effettuato dall’Inps stesso sull’importo effettivamente È il meccanismo che ogni anno adegua l’importo degli assegni previdenziali alla variazione dell’inflazione come rilevata dall’Istat erogato e non su quello teorico.
E «l’interpretazione dell’importo complessivo come comprensivo dell’importo virtuale non percepito dal pensionato richiederebbe, peraltro, un sacrificio economico maggiore, come tale non conforme ai canoni costituzionali, ad una sola categoria, quella dei pensionati titolari di due trattamenti pensionistici, ai quali la perequazione non si applicherebbe, rispetto ai titolari di un unico trattamento pensionistico, pur di pari importo complessivo che avrebbero, invece, diritto alla perequazione a parità di condizioni di debolezza». Per esempio un pensionato che riceveva 45mila euro solo da pensione diretta avrebbe avuto l’adeguamento, un altro, che riceveva lo stesso importo cumulando il 50% della reversibilità, non avrebbe beneficiato della perequazione.
Adeguamento