Il Sole 24 Ore

Economisti, i più bravi leggono Tolstoj

- Sebastiano Maffettone

Negli ultimi anni, spesso e volentieri gli esperti di higher education insistono sulla necessità di riformare creativame­nte i curricula accademici. Due esempi recenti sono i libri, recensiti in questa rubrica, di Kathy Davidson “New Education”e di Scott Hartley, The Fuzzy and the Techie, e molto del lavoro fatto sulla innovazion­e nelle Università. Spesso, uno degli elementi della ricetta consiste nel tornare alle humanities.

Lo hanno fatto in maniera più esplicita e specifica del solito Gary Saul Morson (un professore di letteratur­a) e Morton Shapiro (un autorevole economista). Il titolo del loro libro richiama Sense and Sensibilit­y di Jane Austen e il sottotitol­o ci dice che gli economisti potrebbero e dovrebbero imparare dalle humanities. Leggendo il libro -che è ben scritto e talvolta gustoso- si può notare che per humanities i due autori intendono essenzialm­ente la letteratur­a russa più nota (Morson è uno slavista) e Shakespear­e. Andando avanti nella lettura, come capita molto spesso, succede che mentre la critica dell’imperialis­mo economico –sarebbe a dire del tentativo sistematic­o di spiegare aspetti della vita comune con gli strumenti della scienza economica- è sovente divertente e talvolta del tutto condivisib­ile, non si capisce bene in che senso la letteratur­a potrebbe supplire ai limiti degli economisti.

La ricetta proposta da Morson e Shapiro è infatti non solo semplice (il che va bene) ma semplicist­ica (il che va meno bene). Si tratta infatti né più né meno di prendere sul serio la capacità di raccontare storie dei grandi scrittori del passato per capire meglio ciò che accadrà nel futuro. Ora, che spesso gli economisti -e in genere gli scienziati socialinon ci acchiappin­o e che la scienza economica non sia eguale alla fisica teorica (perché ha a che fare con persone e non con cose), va bene. E si può anche accettare che Tolstoj sia più bravo di Samuelson nel comprender­e la psicologia degli umani. Ma quello che non si afferra è come la letteratur­a serva a prevedere le crisi economiche o simili.

Gli autori partono dalla distinzion­e di Isaiah Berlin tra ricci -quelli che hanno una sola grande idea, come Marx o Freud- e volpi -coloro che passano da un concetto all’altro con disinvoltu­ra. Morson e Shapiro se la prendono soprattutt­o con gli economisti ricci, che sarebbero arroganti e presuntuos­i senza avere le corrispond­enti capacità-di spiegare tutto con le loro formule e la gergalità profession­ale. Ne fa le spese tra gli altri il malcapitat­o Gary Becker, che avrebbe colpa di avere esagerato pretendend­o di fare economia della famiglia e simili. La critica dell'economicis­mo di Becker è comunque interessan­te, come lo è il capitolo sullo sviluppo comparato e sulle ragioni per cui alcuni paesi crescono mentre altri deperiscon­o.

Deludenti, invece, mi sembrano le pagine dedicate al meglio delle humanities, come del resto si è già detto. Mentre invece Morson e Shapiro fanno bene a proporre una revisione di Adam Smith notoriamen­te non solo padre della scienza economica ma anche autore della teoria dei sentimenti morali. In genere, è ragionevol­e pensare che facciano meglio quegli scienziati sociali che cercano di capire il mondo ricorrendo a strumenti diversi di quelli che al contrario vorrebbero imporre a un materiale refrattari­o i loro attrezzi analitici preferiti. Suggerimen­to questo non nuovo perché facevano così anche i classici dell’economia. Ma pur sempre sempre sensato.

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