Economisti, i più bravi leggono Tolstoj
Negli ultimi anni, spesso e volentieri gli esperti di higher education insistono sulla necessità di riformare creativamente i curricula accademici. Due esempi recenti sono i libri, recensiti in questa rubrica, di Kathy Davidson “New Education”e di Scott Hartley, The Fuzzy and the Techie, e molto del lavoro fatto sulla innovazione nelle Università. Spesso, uno degli elementi della ricetta consiste nel tornare alle humanities.
Lo hanno fatto in maniera più esplicita e specifica del solito Gary Saul Morson (un professore di letteratura) e Morton Shapiro (un autorevole economista). Il titolo del loro libro richiama Sense and Sensibility di Jane Austen e il sottotitolo ci dice che gli economisti potrebbero e dovrebbero imparare dalle humanities. Leggendo il libro -che è ben scritto e talvolta gustoso- si può notare che per humanities i due autori intendono essenzialmente la letteratura russa più nota (Morson è uno slavista) e Shakespeare. Andando avanti nella lettura, come capita molto spesso, succede che mentre la critica dell’imperialismo economico –sarebbe a dire del tentativo sistematico di spiegare aspetti della vita comune con gli strumenti della scienza economica- è sovente divertente e talvolta del tutto condivisibile, non si capisce bene in che senso la letteratura potrebbe supplire ai limiti degli economisti.
La ricetta proposta da Morson e Shapiro è infatti non solo semplice (il che va bene) ma semplicistica (il che va meno bene). Si tratta infatti né più né meno di prendere sul serio la capacità di raccontare storie dei grandi scrittori del passato per capire meglio ciò che accadrà nel futuro. Ora, che spesso gli economisti -e in genere gli scienziati socialinon ci acchiappino e che la scienza economica non sia eguale alla fisica teorica (perché ha a che fare con persone e non con cose), va bene. E si può anche accettare che Tolstoj sia più bravo di Samuelson nel comprendere la psicologia degli umani. Ma quello che non si afferra è come la letteratura serva a prevedere le crisi economiche o simili.
Gli autori partono dalla distinzione di Isaiah Berlin tra ricci -quelli che hanno una sola grande idea, come Marx o Freud- e volpi -coloro che passano da un concetto all’altro con disinvoltura. Morson e Shapiro se la prendono soprattutto con gli economisti ricci, che sarebbero arroganti e presuntuosi senza avere le corrispondenti capacità-di spiegare tutto con le loro formule e la gergalità professionale. Ne fa le spese tra gli altri il malcapitato Gary Becker, che avrebbe colpa di avere esagerato pretendendo di fare economia della famiglia e simili. La critica dell'economicismo di Becker è comunque interessante, come lo è il capitolo sullo sviluppo comparato e sulle ragioni per cui alcuni paesi crescono mentre altri deperiscono.
Deludenti, invece, mi sembrano le pagine dedicate al meglio delle humanities, come del resto si è già detto. Mentre invece Morson e Shapiro fanno bene a proporre una revisione di Adam Smith notoriamente non solo padre della scienza economica ma anche autore della teoria dei sentimenti morali. In genere, è ragionevole pensare che facciano meglio quegli scienziati sociali che cercano di capire il mondo ricorrendo a strumenti diversi di quelli che al contrario vorrebbero imporre a un materiale refrattario i loro attrezzi analitici preferiti. Suggerimento questo non nuovo perché facevano così anche i classici dell’economia. Ma pur sempre sempre sensato.