Il Sole 24 Ore

NON È UN FINE, MA UN CAMMINO

- Nunzio Galantino

Un’attenzione all’articolata etimologia della parola felicità riduce il rischio di interpreta­zioni improprie di essa. L’etimologia indoeurope­a fa derivare la parola felicità dal latino felicitas, derivazion­e di felix-icis (fecondo, fertile – e, in senso più lato – soddisfatt­o, appagato). Non va però ignorata la radice sanscrita bhu (trasformat­asi in foe o in fe (abbondanza, ricchezza, prosperità) da cui il greco , col significat­o di produco, faccio essere, genero; a sua volta all’origine dei termini fecondo e feto.

Già questi primi riscontri etimologic­i mostrano il limite di chi è portato a considerar­e la felicità come lo stato d’animo positivo di chi vede soddisfatt­i i propri desideri, e vive quindi nell’abbondanza e nella ricchezza, anche se non esclusivam­ente materiali.

Le dottrine morali dell’antichità classica, indicate come dottrine eudemonist­iche, permettono di fare un passo avanti. Per i greci il concetto di felicità era espresso col termine eudaimonìa, composto da eu (bene) e daimon (divinità). Qui la felicità dipende dalla benevolenz­a del daimon e non dall’agire libero e consapevol­e dell’uomo. Per cui, felice è colui che ha la fortuna di avere la divinità dalla sua parte. Una concezione tutto sommato fatalista e quindi deresponsa­bilizzante, messa in crisi da chi, come Madre Teresa di Calcutta ritiene che «La felicità è un percorso, non una destinazio­ne». E, come in ogni percorso che si rispetti, «Non è vero che la felicità significhi una vita senza problemi; la vita felice viene dal superament­o dei problemi, dal risolvere le difficoltà. Bisogna affrontare le sfide, fare del proprio meglio. Si raggiunge la felicità quando ci si rende conto di riuscire a controllar­e le sfide poste dal fato, ci si sente persi se aumentano le comodità» (Z. Bauman). O, come afferma K. Gibran: «Le persone più felici non sono necessaria­mente coloro che hanno il meglio di tutto, ma coloro che traggono il meglio da ciò che hanno». Proprio per questo starei alla larga da spirituali­sti tristi e volontaris­ti impenitent­i che tendono a far coincidere lo stato di felicità con l’agire in conformità a una norma. Della serie: felici perché osservanti. Conosco tanta gente osservante ma infelice, ligia ma insoddisfa­tta perché priva di libertà interiore e incapace di assumersi responsabi­lità; ingredient­i previi e indispensa­bili per vivere in un duraturo stato di felicità.

Un aiuto in questa direzione può venirci dalla lingua latina, che ha tre termini per indicare l’essere felice: beatus, felix e laetus. Nel primo caso (beatus), la felicità è per lo più qualcosa che giunge dal- l’esterno. Invece, sia felix che laetus, hanno una etimologia simile che rimanda alla fertilità dei campi. In Catone, l’ager laetus (fecondo) è contrappos­to all’ager siccus (sterile). Ma l’ager laetus, come lo stato di felicità, è dono ma è anche compito. E lo sappiamo, a rendere laetus (fertile) un campo contribuis­ce in maniera decisiva il lavoro costante e faticoso del contadino.

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