Fischia l’ultimo vento del folk
Nel dicembre del 2010, un articolo del «Wall Street Journal» (The “no longer” Freewheelin’), mostrando due precari anziani in un fotomontaggio della celebre copertina del ’63, in cui un sereno Bob Dylan abbracciava la fidanzata Suze Rotolo, allungò vita e carriera al cantautore. Di lì a poco Dylan vinse il Nobel per la Letteratura e, ad oggi (dal 1989) è ancora in giro con il celebre Never Ending Tour (il 4 aprile prossimo a Berlino, dall’11 al 13 al Grand Rex, lo storico cinema e sala da concerti di Parigi). Tocca invece a Joan Baez salutare, con serenità anglosassone, il Secolo della contestazione con un omaggio (forse) definitivo: un album (Whistle Down The Wind) e una tournée dal titolo celebrativo ed esaustivo: Fare The Well, dal titolo di due delle più celebri folk songs del Secolo, quella in inglese vernacolare afro-americano (Dink’s Song), edita per la prima volta nel 1934 da John Lomax (che insieme al figlio Alan diede vita e corpo al folk revival internazionale, pizzica compresa) e quella, ancora più antica (10.000 Miles), che lei stessa portò al successo nel 1960, entrambe ballad sulla perdita, il vero sentimento fondativo della frontiera americana.
Ora che anche Joan Baez termina il proprio pellegrinaggio vocale (il suono della sua voce: ecco il grande messaggio della folksinger, al netto delle marce per la pace), assisteremo all’ennesima patrimonializzazione di un’icona, che saluta il nuovo secolo e il pubblico di ieri con l’ultimo tour e il migliore degli album possibili (Whistle Down The Wind, uscito nel marzo scorso), raccolta di cover splendidamente arrangiate, cantate e suonate con la giusta intenzione, di Tom Waits, Josh Ritterand, Mary Carpenter, Zoe Mulford, oltre alla tradizionale, anonima I Wish the Wars Were All Over, song pacifista risalente alla Guerra civile. Mancano pochi mesi, ma la Baez experience (puro folk old school: piedi nudi sul palco e chitarra acustica a tracolla) sarà accessibile, ancora per alcuni mesi, nel Tour degli addii (da stasera fino alla prossima settimana all’Olympia di Parigi, poi in USA e in Europa, per ora non in Italia, fino all’estate). Ed è un addio (non una rinuncia) simbolico. Nel 1965 Baez pubblica con la Vanguard Farewell, il primo di infiniti addii, forse l’album che racconta meglio la sua vocazione a rileggere l’epica folk americana, quella vera, dotata di valore poetico ed estetico (testi tradizionali, ovviamente di Dylan, di Woody Guthrie e l’anarchiste Léo Ferré, oltre alla celebre Satisfied Mind di Rhodes/Haynes), anche a prescindere dall’attivismo a volte esasperato e dalle battaglie civili (anche se quello fu un album compiutamente politico). Cos’altro augurale? Citando il titolo della canzone che Dylan dedicò a Suze Rotolo proprio in Freewheelin’, ma che Baez, da militante di lungo corso sapeva essere dedicato alle rivoluzioni (comprese quelle esistenziali) mancate: Don’t Think Twice, It’s All Right. Le stesse parole con cui lei stessa ha aperto lo scorso anno, sempre all’Olympia, questo lungo tour degli addii.