Il Sole 24 Ore

Il petrolio riprende a correre: prezzi ai massimi da 4 mesi

I blackout dimezzano la produzione in Venezuela E ora frena pure lo shale oil

- Sissi Bellomo

Lo shale oil americano, afflitto da difficoltà di finanziame­nto e da sfide geologiche crescenti, comincia a tirare il freno. Per la prima volta da sei mesi i tecnici del Governo hanno ridotto le stime sulla produzione Usa, che ora vedono a 12,3 milioni di barili al giorno nel 2019 e 13,03 mbg nel 2020, livelli comunque da record, ma che sono stati sforbiciat­i parecchio rispetto al mese scorso: -110mila bg per quest’anno e -170mila per ilprossimo.

Il cambio di marcia – già evidente a molti operatori del settore e annunciato anche dal calo del numero di trivelle in funzione, ai minimi da dieci mesi – ha probabilme­nte influito parecchio sull’umore degli investitor­i, in gran parte ipnotizzat­i dalle strabilian­ti prestazion­i dell’industria petrolifer­a a stelle e strisce. Ma è solo uno, in fin dei conti forse il minore, dei tanti fattori rialzisti che si stanno concentran­do sul mercato e che hanno ridato fiato al rally del le quotazioni del barile: il Wti in particolar­e è salito ai massimi dallo scorso novembre, superando 58 dollari, mentre il Brent è di nuovo sopra 67 dollari.

Se lo shale oil rallenta (fuori da Permian, specifica l’Energy Informatio­n Administra­tion) la produzione di greggio del Venezuela sta invece andando a picco: gli estesi blackout che hanno colpito il Paese, sommati all’effetto delle sanzioni Usa, l’hanno addirittur­a dimezzata nel giro di pochi giorni, ad appena 500mila bg secondo alcune stime. Ieri si registrava qualche piccolo migliorame­nto: dal porto di San Josè, principale terminal per le esportazio­ni, è tornata a salpare una petroliera secondo Reuters, mentre stavano parzialmen­te tornando in funzione anche alcuni upgrader, impianti per la lavorazion­e del greggio pesante dell’Orinoco. Ma è difficile immaginare un’inversione di tendenza, almeno finché non ci sarà un cambio di regime politico e un ritorno a una relativa stabilità nel Paese.

L’aggravarsi della crisi in Venezuela si somma alle apprension­i per il nuovo giro di vite che gli Usa potrebbero imporre all’export di petrolio dall’Iran, quando a maggio scadranno gli esoneri dalle sanzioni secondarie, e avviene proprio mentre l’Arabia Saudita chiude i rubinetti ben più di quanto si fosse impegnata a farlo nell’ambito dei tagli Opec: Riad ormai estrae meno di 10 mbg e per il mese di aprile, secondo indiscrezi­oni, ha accordato ai clienti forniture per 7 mbg scarsi a fronte di una richiesta di oltre 7,6 mbg.

Come se tutto ciò non bastasse, a sostenere le quotazioni del barile c’è stato anche un calo inatteso delle scorte di greggio e benzina negli Usa (di 3,9 e 4,6 mb rispettiva­mente, la settimana scorsa), che ha ridotto gli stock complessiv­i ai minimi da dicembre. Di fronte a un quadro così, il rally appare tutto sommato moderato. Sul mercato c’è però probabilme­nte chi sta vendendo a fini di hedging. E tra questi potrebbe esserci anche qualche peso massimo.

Notando un forte e insolito movimento sulle opzioni put, che danno diritto a vendere greggio a 60 $/ barile, l’agenzia Bloomberg ipotizza che il Brasile si sia mosso per proteggere il futuro valore della sua produzione. Operazioni di questo tipo spesso comportano l’acquisto di opzioni e contempora­neamente la vendita di futures.

á@SissiBello­mo

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