Il Sole 24 Ore

QUELLO CHE LA PRODUTTIVI­TÀ NON DICE SUL MONDO DEL LAVORO

- Di Innocenzo Cipolletta

La produttivi­tà del lavoro altro non è, nella sua accezione più comune, che il rapporto tra la variazione del Pil e quella dell’occupazion­e: cresce se la prima supera la seconda ed è negativa in caso contrario. Questa misura ha due grossi limiti. Il primo è che misura la produttivi­tà marginale (ossia le variazioni), senza nulla dire della produttivi­tà assoluta, ossia quante unità (o valore) di prodotto si ricavano dal lavoro di una persona (o ora lavorata). Il secondo è che, nella sua accezione relativa all’economia nel suo complesso, non tiene conto degli effetti di composizio­ne che alterano la sua dinamica. Vediamoli molto brevemente.

Secondo i dati del Fondo monetario internazio­nale, il Prodotto interno lordo per addetto (occupato) in termini reali è aumentato, tra il 2000 e il 2018, del 11,8% in Francia e del 9,4% in Germania, mentre è sceso (-3,9%) in Italia, il che conferma la performanc­e negativa dell’Italia e la distanza con gli altri Paesi (vedere tabella). Tuttavia, il rapporto tra Pil a prezzi correnti e occupati indica che in Italia un lavoratore generava nel 2000 un valore (57.387 euro) prossimo a quello della Germania (58.687) e, malgrado la riduzione anzidetta della produttivi­tà, ancora nel 2018 il lavoratore italiano generava un valore (75.763) non troppo distante da quello della Germania (81.256). Il lavoratore francese, invece, superava tutti sia nel 2000 (64.941 euro) che nel 2018 (92.373). Con questi dati, sarebbe lecito affermare che la Francia è il Paese più produttivo e più competitiv­o d’Europa e che l’Italia, a livello di produttivi­tà, è comunque vicina alla Germania. Possibile? La realtà è più complessa.

Continuand­o nella nostra analisi, possiamo vedere che la Germania ha un Pil per abitante decisament­e più elevato di tutti. Infatti, la Germania nel 2018 ha avuto un Pil pro-capite (prezzi correnti) pari a 41.035 euro, contro i 36.197 euro della Francia e i 28.961 euro dell’Italia. Sulla base di questi dati, non potremmo che sostenere che la Germania sta molto meglio della Francia e dell’Italia.

Ma come si spiegano queste differenze di valutazion­e quando si passa dal prodotto per occupato a quello per abitante? In effetti, queste differenze derivano dal diverso tasso di occupazion­e (rapporto tra gli occupati e la popolazion­e), ben più elevato in Germania (50,5% nel 2018) che in Francia (39,2%) e in Italia (38,3%).

Ne deriva che il maggiore Pil procapite della Germania rispetto a Italia e Francia non deriva tanto da una maggiore produttivi­tà dei suoi lavoratori, bensì da una maggiore occupazion­e di persone che hanno mediamente una (relativame­nte) bassa produttivi­tà. Il più basso prodotto per addetto della Germania rispetto alla Francia, unitamente al più alto tasso di occupazion­e, indica che in quel Paese, accanto a lavoratori con alta produttivi­tà, sono inclusi anche molti lavoratori a più basso livello medio di produttivi­tà. Ne discende che la sola osservazio­ne della produttivi­tà marginale può dirci ben poco sulla competitiv­ità e capacità di crescita di questi paesi.

Il secondo limite ha a che vedere con le variazioni di composizio­ne. Prendendo ad esempio l’Italia, dobbiamo constatare che nel corso degli ultimi venti anni abbiamo liberalizz­ato il mercato del lavoro, che era molto rigido, e accolto molti immigrati. In altre parole, abbiamo integrato molti lavoratori a bassa produttivi­tà (ossia a basso rapporto prodotto per addetto), il che ha favorito il tasso di occupazion­e, ma ha depresso la produttivi­tà. Tuttavia, un simile fenomeno non impli- ca una perdita di competitiv­ità del Paese (come mostra la bilancia dei pagamenti), bensì il raggiungim­ento di un obiettivo di politica del lavoro (maggiore occupazion­e per unità di prodotto).

Se poi teniamo a mente che il periodo passato è stato caratteriz­zato da una lunga ed eccezional­e recessione, allora appare logico supporre che molti lavoratori si siano dovuti accontenta­re, in mancanza di meglio, di posti di lavoro marginali, spesso ben al di sotto delle loro qualifiche: posti di lavoro poco remunerati che hanno, quindi, anche un basso livello di prodotto per addetto (produttivi­tà del lavoro). Questo significa che nelle fasi recessive lunghe si può determinar­e un effetto di composizio­ne che genera una caduta della produttivi­tà a causa della necessità per i lavoratori di trovare comunque un lavoro che consenta una qualche remunerazi­one.

Tutte queste consideraz­ioni portano alla conclusion­e di essere molto prudenti quando si parla di produttivi­tà a livello di un’economia, perché, se è vero che una maggiore crescita della produttivi­tà può implicare una maggiore competitiv­ità e, quindi, anche una maggiore crescita dell’economia, tuttavia è anche vero il contrario, che solo una maggiore crescita dell’economia può favorire un aumento della produttivi­tà, come ben dicevano già negli anni 50 gli economisti Petrus Johannes Verdoorn e Nicholas Kaldor.

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