PIÙ RISORSE ALLA SCUOLA E MENO AUTARCHIA
Sono trascorsi quasi trent’anni da quando Guido Carli, chiamato a ricoprire nell’aprile 1991 l’incarico di ministro del Tesoro nel settimo governo Andreotti, alla vigilia del trattato di Maastricht, tornò ad ammonire che “lacci e lacciuoli”, qualora non fossero stati recisi, avrebbero continuato a deprimere le potenzialità di un’economia essenzialmente di trasformazione, come quella italiana, priva pressoché del tutto di materie prime e di risorse strategiche. Tanto più che questi cronici intralci avrebbero finito per assumere forme patologiche nell’ambito della costituenda Unione economica e monetaria europea.
Da allora, non si può purtroppo dire che si sia provveduto a districare il groviglio di ceppi e vischiosità a cui Carli faceva riferimento, consistenti in una congèrie di esorbitanti procedure burocratiche, di vetuste rendite di posizione e di incrostazioni corporative, di paralizzanti prerogative di vari enti pubblici e amministrazioni locali, di esasperanti lentezze della giustizia civile. Anzi, in più d’un versante alla zavorra ereditata dal passato se n’è aggiunta di nuova.
Al punto che questo cumulo di criticità e di incongruenze costituisce oggi una pesante ipoteca sempre più intollerabile, in quanto restringe la possibilità di generare un maggior grado di sviluppo, di elevare durevolmente il Pil e di ridurre a un livello sostenibile l’ingente fardello del debito pubblico. Dunque, una sorta di micidiale cortocircuito che ha continuato a tener bassa la produttività generale del nostro sistema-Paese.
Ce l’ha ricordato ancora una volta l’ultima analisi, dei primi di marzo, della Banca centrale europea. L’Italia figura infatti tra i fanalini di coda dell’Eurozona: sia perché hanno seguitato, appunto, a gravare sulle spalle di un Paese, oltretutto spossato dai duri contraccolpi della Grande Crisi del 2008, una trafila di pastoie e inefficienze endemiche; sia perché non è avvenuto finora un netto miglioramento del mercato del lavoro, né un adeguato ammodernamento delle infrastrutture, e neppure si sono utilizzati in pieno i fondi europei di coesione territoriale nelle aree più deboli del Mezzogiorno.
Quello della scarsa produttività non è, peraltro, solo un nodo nevralgico di ordine strutturale, ma anche un nodo di carattere culturale e quindi appare tanto più difficile da sciogliere.
Se un aumento dei salari correlato
SONO NECESSARI INVESTIMENTI PUBBLICI PER ACCRESCERE LE COMPETENZE DEI PIÙ GIOVANI
a quello della produttività (verso cui sembrano adesso convergere le imprese e i sindacati) servirà a rendere il costo e la qualità del lavoro analoghi a quelli vigenti nei Paesi più avanzati, e se l’incipiente adozione delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale accrescerà sicuramente le competitività della nostra industria nel mercato globale, risulta tuttavia altrettanto essenziale l’apporto di un contesto sociale e normativo aperto tanto alla progettualità e alle innovazioni che a politiche attive del lavoro e alla formazione di nuovi percorsi e profili professionali.
Ma non risulta che abbia fatto finora molta strada, dalle nostre parti, un’adeguata e responsabile consapevolezza della complessa e mutevole realtà in cui viviamo. E si sia quindi giunti a prendere debitamente atto che il capitale e il lavoro non sono più gli unici fattori della produzione e dell’economia, in quanto lo sono divenute anche due altre risorse importanti come la conoscenza e le informazioni. Il che comporta un consistente stock di investimenti pubblici nei settori della scuola e della ricerca, che valgano ad agevolare, agli effetti della valorizzazione e dell’inclusione delle nuove leve giovanili, sia l’acquisizione di un determinato bagaglio indispensabile di saperi e competenze sia l’eliminazione di stridenti dislivelli linguistici e culturali, e quindi anche sociali.
Inoltre occorre che nell’opinione comune venga infine meno una visione taumaturgica quanto surrettizia dello Stato, quale demiurgo paterno e provvidenziale per ogni evenienza, come molti erano portati a considerarlo in passato e continuano oggi a invocarlo non solo per forza d’inerzia, ma in base a una concezione sovranista e populista altrettanto fuorviante che controproducente per orientarsi e agire nell’ambito di un universo multipolare e sempre più interconnesso.
È evidente perciò come la nostra società corra il rischio di ripiegare su se stessa e di rattrappirsi, a causa di un nuovo pregiudizio ideologico o di schemi mentali ancora radicati al suo interno, entrambi tendenzialmente autarchici. Tanto più dopo che l’irruente ondata dell’antipolitica e un’indiscriminata contestazione delle élite sono adesso sfociati, sulla scia della “piattaforma Rousseau”, nell’enfatizzazione della democrazia diretta, quale alternativa alla democrazia rappresentativa e all’intermediazione sociale.