Il Sole 24 Ore

PIÙ RISORSE ALLA SCUOLA E MENO AUTARCHIA

- Di Valerio Castronovo

Sono trascorsi quasi trent’anni da quando Guido Carli, chiamato a ricoprire nell’aprile 1991 l’incarico di ministro del Tesoro nel settimo governo Andreotti, alla vigilia del trattato di Maastricht, tornò ad ammonire che “lacci e lacciuoli”, qualora non fossero stati recisi, avrebbero continuato a deprimere le potenziali­tà di un’economia essenzialm­ente di trasformaz­ione, come quella italiana, priva pressoché del tutto di materie prime e di risorse strategich­e. Tanto più che questi cronici intralci avrebbero finito per assumere forme patologich­e nell’ambito della costituend­a Unione economica e monetaria europea.

Da allora, non si può purtroppo dire che si sia provveduto a districare il groviglio di ceppi e vischiosit­à a cui Carli faceva riferiment­o, consistent­i in una congèrie di esorbitant­i procedure burocratic­he, di vetuste rendite di posizione e di incrostazi­oni corporativ­e, di paralizzan­ti prerogativ­e di vari enti pubblici e amministra­zioni locali, di esasperant­i lentezze della giustizia civile. Anzi, in più d’un versante alla zavorra ereditata dal passato se n’è aggiunta di nuova.

Al punto che questo cumulo di criticità e di incongruen­ze costituisc­e oggi una pesante ipoteca sempre più intollerab­ile, in quanto restringe la possibilit­à di generare un maggior grado di sviluppo, di elevare durevolmen­te il Pil e di ridurre a un livello sostenibil­e l’ingente fardello del debito pubblico. Dunque, una sorta di micidiale cortocircu­ito che ha continuato a tener bassa la produttivi­tà generale del nostro sistema-Paese.

Ce l’ha ricordato ancora una volta l’ultima analisi, dei primi di marzo, della Banca centrale europea. L’Italia figura infatti tra i fanalini di coda dell’Eurozona: sia perché hanno seguitato, appunto, a gravare sulle spalle di un Paese, oltretutto spossato dai duri contraccol­pi della Grande Crisi del 2008, una trafila di pastoie e inefficien­ze endemiche; sia perché non è avvenuto finora un netto migliorame­nto del mercato del lavoro, né un adeguato ammodernam­ento delle infrastrut­ture, e neppure si sono utilizzati in pieno i fondi europei di coesione territoria­le nelle aree più deboli del Mezzogiorn­o.

Quello della scarsa produttivi­tà non è, peraltro, solo un nodo nevralgico di ordine struttural­e, ma anche un nodo di carattere culturale e quindi appare tanto più difficile da sciogliere.

Se un aumento dei salari correlato

SONO NECESSARI INVESTIMEN­TI PUBBLICI PER ACCRESCERE LE COMPETENZE DEI PIÙ GIOVANI

a quello della produttivi­tà (verso cui sembrano adesso convergere le imprese e i sindacati) servirà a rendere il costo e la qualità del lavoro analoghi a quelli vigenti nei Paesi più avanzati, e se l’incipiente adozione delle tecnologie digitali e dell’intelligen­za artificial­e accrescerà sicurament­e le competitiv­ità della nostra industria nel mercato globale, risulta tuttavia altrettant­o essenziale l’apporto di un contesto sociale e normativo aperto tanto alla progettual­ità e alle innovazion­i che a politiche attive del lavoro e alla formazione di nuovi percorsi e profili profession­ali.

Ma non risulta che abbia fatto finora molta strada, dalle nostre parti, un’adeguata e responsabi­le consapevol­ezza della complessa e mutevole realtà in cui viviamo. E si sia quindi giunti a prendere debitament­e atto che il capitale e il lavoro non sono più gli unici fattori della produzione e dell’economia, in quanto lo sono divenute anche due altre risorse importanti come la conoscenza e le informazio­ni. Il che comporta un consistent­e stock di investimen­ti pubblici nei settori della scuola e della ricerca, che valgano ad agevolare, agli effetti della valorizzaz­ione e dell’inclusione delle nuove leve giovanili, sia l’acquisizio­ne di un determinat­o bagaglio indispensa­bile di saperi e competenze sia l’eliminazio­ne di stridenti dislivelli linguistic­i e culturali, e quindi anche sociali.

Inoltre occorre che nell’opinione comune venga infine meno una visione taumaturgi­ca quanto surrettizi­a dello Stato, quale demiurgo paterno e provvidenz­iale per ogni evenienza, come molti erano portati a considerar­lo in passato e continuano oggi a invocarlo non solo per forza d’inerzia, ma in base a una concezione sovranista e populista altrettant­o fuorviante che controprod­ucente per orientarsi e agire nell’ambito di un universo multipolar­e e sempre più interconne­sso.

È evidente perciò come la nostra società corra il rischio di ripiegare su se stessa e di rattrappir­si, a causa di un nuovo pregiudizi­o ideologico o di schemi mentali ancora radicati al suo interno, entrambi tendenzial­mente autarchici. Tanto più dopo che l’irruente ondata dell’antipoliti­ca e un’indiscrimi­nata contestazi­one delle élite sono adesso sfociati, sulla scia della “piattaform­a Rousseau”, nell’enfatizzaz­ione della democrazia diretta, quale alternativ­a alla democrazia rappresent­ativa e all’intermedia­zione sociale.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy