Licenziabile chi spaccia fuori azienda
Anche se le conseguenze sul rapporto con il datore di lavoro sono solo potenziali
L’essere coinvolto nello spaccio di sostanze stupefacenti è un fatto di tale gravità da legittimare il licenziamento in tronco, indipendentemente dal fatto che il dipendente abbia o meno introdotto gli stupefacenti all’interno dell’azienda datrice di lavoro. Lo ha chiarito la Corte di cassazione con l’ordinanza 4804/2019, precisando che, per valutare la rilevanza nell’ambito del rapporto di lavoro della condotta di chi si dedichi allo spaccio di sostanze psicotrope, debba aversi riguardo non necessariamente all’eventuale danno arrecato all’azienda, quanto piuttosto al disvalore della condotta in sé.
Infatti, precisa la Corte, quello dello spacciatore è un comportamento che, oltre ad avere rilievo penale, è in tale contrasto con le norme dell’etica e del vivere civile da essere di per sé idoneo a compromettere in modo definitivo il necessario vincolo fiduciario tra datore di lavoro e dipendente, senza che a tale fine abbia rilievo la circostanza che il riflesso della condotta extralavorativa sul rapporto con il datore sia solo potenziale.
Inoltre non è necessario che il riflesso sulla relazione con il datore di lavoro sia attuale o immediato: laddove il comportamento del dipendente sia particolarmente riprovevole da un punto di vista etico e sociale, il riflesso di quest’ultimo sul rapporto lavorativo è oggettivo, anche ove solo potenziale. Pertanto, conclude l’ordinanza, la sentenza con cui al dipendente viene riconosciuto il diritto a essere reintegrato in azienda dev’essere cassata con rinvio alla Corte d’appello, che dovrà tenere conto di come la detenzione e spaccio di elevate quantità di stupefacenti sia condotta sussumibile, in astratto, nella nozione di giusta causa.