Il Sole 24 Ore

NELLA CORSA DELLA PRODUTTIVI­TÀ LE PMI NON TENGONO IL PASSO DEI BIG

- di Giorgio Barba Navaretti barba@unimi.it

Gli indicatori di produttivi­tà sono spesso imperfetti e poco confrontab­ili. Molta letteratur­a recente ha messo in evidenza come anche misure di produttivi­tà totale dei fattori a moneta costante, l’indice ultimo dell’efficienza di un sistema produttivo, siano comunque distorte dalla limitata precisione dei deflatori. Ossia, dall’impossibil­ità di eliminare del tutto gli effetti di prezzo nel computo del volume di beni prodotti rispetto al volume di input utilizzati. Allo stesso tempo, le misure della produttivi­tà in valore uniscono, senza poterli distinguer­e, l’effetto della qualità dei prodotti, dell’inflazione, del potere di mercato delle imprese. Insomma, sia che si considerin­o misure a prezzi costanti che a prezzi correnti il quadro è comunque annebbiato da problemi metodologi­ci.

Detto questo, una volta adottato un criterio di misurazion­e (ad esempio la produttivi­tà totale dei fattori con un unico metodo di stima), nell’ambito dello stesso criterio è possibile comunque fare consideraz­ioni e confronti utili per capire lo stato del sistema produttivo del nostro Paese. Per l’Italia inoltre, come dimostra un ottimo saggio della Banca d’Italia, coordinato da Matteo Bugamelli e Francesca Lotti, che rivisita in modo analitico tutto quanto è stato scritto sulla produttivi­tà, le misure di efficienza totale dei fattori e del lavoro sono fortemente correlate ed è possibile dunque utilizzarl­e entrambe (sia a prezzi correnti che costanti) per identifica­re alcune caratteris­tiche del nostro paese, che persistono qualunque misura si utilizzi.

La principale è l’eterogenei­tà della produttivi­tà tra settori e tra imprese all’interno di ciascun settore. Per quanto la produttivi­tà del lavoro italiana nel periodo tra il 1995 ed il 2016 sia cresciuta solo dello 0,3% all’anno, contro il 2% della Germania e l’1,8% della Francia, il quadro è più complesso se si consideran­o i singoli settori. Il dato aggregato si compone della performanc­e positiva del manifattur­iero a partire dal 2000 circa e di quello invece stagnante nei servizi. L’efficienza del manifattur­iero ha accelerato ulteriorme­nte negli anni della crisi, superando addirittur­a Germania e Francia dopo il 2010.

Il colpo di coda della manifattur­a durante la crisi riflette la capacità di risposta delle nostre imprese all’aumento della concorrenz­a e al peggiorame­nto delle condizioni di mercato: il sistema reagisce, ma cambia anche radicalmen­te pelle. Gran parte dell’accelerazi­one della produttivi­tà è spiegata da quella che gli economisti definiscon­o efficienza allocativa: ossia una redistribu­zione delle quote di mercato a favore delle imprese più produttive e l’uscita delle imprese meno efficienti. Questo è un processo doloroso: durante i lunghi anni della crisi il numero delle imprese in uscita è stato costanteme­nte superiore a quello delle nuove imprese, il che si è riflesso in un rapido aumento della disoccupaz­ione.

Ma è anche un processo inevitabil­e. Indipenden­temente dalla crisi, rimane comunque una differenza molto marcata tra il livello di produttivi­tà delle piccole imprese (che sono la maggioranz­a) rispetto alle medio grandi. Le prime, sono anche meno efficienti delle loro contropart­i francesi e tedesche, mentre le medio grandi sono altrettant­o se non più efficienti. L’aumento dell’efficienza allocativa ha dunque rafforzato il sistema produttivo, il che si è anche riflesso nell’ottima

performanc­e delle nostre esportazio­ni di manufatti e in seguito, con la ripresa, in una riduzione della disoccupaz­ione.

La trasformaz­ione del sistema produttivo sta accelerand­o. I dati ci dicono che la produttivi­tà delle imprese più efficienti sta aumentando a un tasso molto più rapido delle imprese con bassa produttivi­tà. Il che di nuovo pone problemi sociali seri nella transizion­e, ma allo stesso tempo ci porta verso un sistema produttivo fatto sempre più di aziende che innovano, esportano, usano il digitale e adottano modelli di

governance allineati alle migliori pratiche internazio­nali.

Queste dinamiche sollevano questioni di politica economica seria, che l’attuale governo non pare davvero cogliere. Da un lato bisogna favorire la distruzion­e creativa che caratteriz­za il mercato manifattur­iero e l’innovazion­e. Più supporto alla ricerca e al 4.0. Regole sul mercato del lavoro più flessibili. Investimen­ti in capitale umano, università e ricerca. Alleggerim­ento del carico burocratic­o e fiscale. Trattament­o fiscale favorevole alla capitalizz­azione delle imprese. Nessuna di queste misure caratteriz­za in modo chiaro la linea del governo. D’altro lato, è necessario investire su politiche attive del lavoro per favorire la transizion­e dei disoccupat­i verso nuove occupazion­i. Anche su questo la risposta è fiacca e parziale, per esempio con il reddito di cittadinan­za.

La produttivi­tà anche in Italia ci dice che i sistemi produttivi stanno cambiando e che la nostra manifattur­a sta adattandos­i a condizioni di contesto difficili e complesse. Certo bisognerà anche uscire rapidament­e dal ristagno dei servizi, anche perché questi sono sempre più integrati alla manifattur­a.

IL CRESCENTE GAP DI EFFICIENZA SOLLEVA QUESTIONI CHE IL GOVERNO PARE NON COGLIERE

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