NELLA CORSA DELLA PRODUTTIVITÀ LE PMI NON TENGONO IL PASSO DEI BIG
Gli indicatori di produttività sono spesso imperfetti e poco confrontabili. Molta letteratura recente ha messo in evidenza come anche misure di produttività totale dei fattori a moneta costante, l’indice ultimo dell’efficienza di un sistema produttivo, siano comunque distorte dalla limitata precisione dei deflatori. Ossia, dall’impossibilità di eliminare del tutto gli effetti di prezzo nel computo del volume di beni prodotti rispetto al volume di input utilizzati. Allo stesso tempo, le misure della produttività in valore uniscono, senza poterli distinguere, l’effetto della qualità dei prodotti, dell’inflazione, del potere di mercato delle imprese. Insomma, sia che si considerino misure a prezzi costanti che a prezzi correnti il quadro è comunque annebbiato da problemi metodologici.
Detto questo, una volta adottato un criterio di misurazione (ad esempio la produttività totale dei fattori con un unico metodo di stima), nell’ambito dello stesso criterio è possibile comunque fare considerazioni e confronti utili per capire lo stato del sistema produttivo del nostro Paese. Per l’Italia inoltre, come dimostra un ottimo saggio della Banca d’Italia, coordinato da Matteo Bugamelli e Francesca Lotti, che rivisita in modo analitico tutto quanto è stato scritto sulla produttività, le misure di efficienza totale dei fattori e del lavoro sono fortemente correlate ed è possibile dunque utilizzarle entrambe (sia a prezzi correnti che costanti) per identificare alcune caratteristiche del nostro paese, che persistono qualunque misura si utilizzi.
La principale è l’eterogeneità della produttività tra settori e tra imprese all’interno di ciascun settore. Per quanto la produttività del lavoro italiana nel periodo tra il 1995 ed il 2016 sia cresciuta solo dello 0,3% all’anno, contro il 2% della Germania e l’1,8% della Francia, il quadro è più complesso se si considerano i singoli settori. Il dato aggregato si compone della performance positiva del manifatturiero a partire dal 2000 circa e di quello invece stagnante nei servizi. L’efficienza del manifatturiero ha accelerato ulteriormente negli anni della crisi, superando addirittura Germania e Francia dopo il 2010.
Il colpo di coda della manifattura durante la crisi riflette la capacità di risposta delle nostre imprese all’aumento della concorrenza e al peggioramento delle condizioni di mercato: il sistema reagisce, ma cambia anche radicalmente pelle. Gran parte dell’accelerazione della produttività è spiegata da quella che gli economisti definiscono efficienza allocativa: ossia una redistribuzione delle quote di mercato a favore delle imprese più produttive e l’uscita delle imprese meno efficienti. Questo è un processo doloroso: durante i lunghi anni della crisi il numero delle imprese in uscita è stato costantemente superiore a quello delle nuove imprese, il che si è riflesso in un rapido aumento della disoccupazione.
Ma è anche un processo inevitabile. Indipendentemente dalla crisi, rimane comunque una differenza molto marcata tra il livello di produttività delle piccole imprese (che sono la maggioranza) rispetto alle medio grandi. Le prime, sono anche meno efficienti delle loro controparti francesi e tedesche, mentre le medio grandi sono altrettanto se non più efficienti. L’aumento dell’efficienza allocativa ha dunque rafforzato il sistema produttivo, il che si è anche riflesso nell’ottima
performance delle nostre esportazioni di manufatti e in seguito, con la ripresa, in una riduzione della disoccupazione.
La trasformazione del sistema produttivo sta accelerando. I dati ci dicono che la produttività delle imprese più efficienti sta aumentando a un tasso molto più rapido delle imprese con bassa produttività. Il che di nuovo pone problemi sociali seri nella transizione, ma allo stesso tempo ci porta verso un sistema produttivo fatto sempre più di aziende che innovano, esportano, usano il digitale e adottano modelli di
governance allineati alle migliori pratiche internazionali.
Queste dinamiche sollevano questioni di politica economica seria, che l’attuale governo non pare davvero cogliere. Da un lato bisogna favorire la distruzione creativa che caratterizza il mercato manifatturiero e l’innovazione. Più supporto alla ricerca e al 4.0. Regole sul mercato del lavoro più flessibili. Investimenti in capitale umano, università e ricerca. Alleggerimento del carico burocratico e fiscale. Trattamento fiscale favorevole alla capitalizzazione delle imprese. Nessuna di queste misure caratterizza in modo chiaro la linea del governo. D’altro lato, è necessario investire su politiche attive del lavoro per favorire la transizione dei disoccupati verso nuove occupazioni. Anche su questo la risposta è fiacca e parziale, per esempio con il reddito di cittadinanza.
La produttività anche in Italia ci dice che i sistemi produttivi stanno cambiando e che la nostra manifattura sta adattandosi a condizioni di contesto difficili e complesse. Certo bisognerà anche uscire rapidamente dal ristagno dei servizi, anche perché questi sono sempre più integrati alla manifattura.
IL CRESCENTE GAP DI EFFICIENZA SOLLEVA QUESTIONI CHE IL GOVERNO PARE NON COGLIERE