Lotta al sommerso
Fisco internazionale e riciclaggio, i buchi dello scambio di dati
Adiciotto mesi dal debutto sullo scenario internazionale – il primo invio massivo di dati da parte dei Paesi early adopter risale a settembre 2017 – e in attesa dei primi risultati utilizzabili il sistema dello scambio automatico di info fiscali denuncia le prime crepe e i lascia intravedere i prevedibili, e previsti. interstizi e scappatoie.
Se la partecipazione internazionale al progetto di trasparenza, nato e condotto dagli Usa all’indomani della grande crisi dei subprime, è fuori discussione – l’Italia per esempio oggi dialoga con 103 amministrazioni –, le perplessità nascono dalle scelte strategiche di alcuni paesi che hanno trovato il modo di continuare a garantire tranquillità a contribuenti “non fair”. Problemi che affliggono la stessa Comunità europea, se è vero che Romania e Cipro, solo a titolo di esempio, hanno scelto di ricevere informazioni fiscali solo da 33 Paesi, contro una media di 85 giurisdizioni adottata dagli altri partner comunitari. Non solo, Austria, Bulgaria e ancora una volta Cipro, che offrono la cittadinanza con leggerezza particolare, secondo uno studio della della stessa comunità (reporting Taxation, analysing loopholes in the Eu’s automatic exchange of information ) hanno adottato il cosiddetto «voluntary secrecy»: si tratta di uno schema semplicissimo, e peraltro non vietato dalle norme vigenti, che permette agli Stati di scegliere di non voler ricevere dall’estero alcuna informazione finanziaria sui propri residenti, veri o fittizi che siano. Una strategia di attrattività fiscale che spiegherebbe l’incremento migratorio in atto verso quelli che la Ue continua a definire tax havens: una volta basato in questi placidi porti, il contribuente “naturalizzato” non risponderà più al fisco del suo paese di origine né a quello di nuova elezione.
La questione non si ferma poi al solo aspetto fiscale, in ogni caso, perché da tempo le politiche di perseguimento del nero internazionale viaggiano a braccetto con quelle di attenzione sul versante del riciclaggio: la stessa Ue infatti, oltre alla black list fiscale, da alcuni anni redige un elenco di proscrizione per le giurisdizioni che non fanno abbastanza sul versante dell’identificazione del beneficiario effettivo delle transazioni finanziarie, questa seconda molto più temuta perché di fatto rende molto più difficile le relazioni economiche con la comunità dei 28.
Ma non è solo un fatto opportunistico a minare l’efficacia del modello del Common reporting standard. Problemi ci sono anche nella copertura delle info sulle attività finanziarie da condividere tra Paesi, considerato che per esempio cassette di sicurezza, opere d’arte, oro fisico e altri beni di lusso non rientrano tra gli asset da rivelare al fisco di riferimento del contribuente. Se su questo versante i lavori della Ue stanno progredendo (si veda l’intervento in basso) più problematico appare oggi intervenire sulle omissioni formalmente ineccepibili, ma di fatto deflagranti, dei nuovi tax havens del vecchio continente. Il rischio che va sempre più realizzandosi è un nuovo campo comune di gioco ma con regole alterne, un po’ come succede da anni per la tassazione dei nuovi oligopolisti digitali (basti pensare per tutti ai casi di Irlanda, Paesi Bassi, Lussemburgo).
Che qualcosa sia ancora da mettere a punto nella rete internazionale di contrasto emerge comunque anche dai freddi numeri a disposizione. Mentre Gdf e agenzia delle Entrate, a tre anni dalla chiusura del primo programma di emersione volontaria dei capitali (60 miliardi svelati) rilevano mancate dichiarazioni di asset esteri per oltre due miliardi di euro, e in Canton Ticino in chiusura di voluntary disclosure spuntano dal nulla 2,2 miliardi non dichiarati all’estero (di ex italiani?), Banca d’Italia stima un’evasione costante fra il 13 e il 14 % sulle dichiarazioni di proprietà e di ricchezza detenuti all’estero, singolarmente un dato costante in tutte le economie evolute. Per intenderci, il dato riferito all’Italia significa che fuori dai confini e fuori dalla rete della trasparenza internazionale galleggiano costantemente – e prudenzialmente – tra i 127 e i 178 miliardi, solo parzialmente neutralizzati dalla prima Voluntary disclosure (e probabilmente già rimpiazzata).
La necessità di legare le informazioni fiscali e quelle sull’antiriciclaggio – due mondi sempre più interconnessi e dipendenti – viene sottolineata ancora una volta dalla stessa Comunità, nello studio sulla tassazione comunitaria redatto alla fine dello scorso anno da un gruppo parlamentare. «In un mondo ideale – si legge nella relazione – ogni Stato dovrebbe raccogliere informazioni non solo sul beneficiario legale (apparente, ndr) ma anche su quello effettivo relativamente a ogni bene rilevante (attività, ndr) finanziario o non finanziario, e relativamente ai veicoli (strumenti) legali creati e operanti nei loro propri territori», tuttavia, prende atto lo stesso studio, «il mondo attuale è un posto molto diverso da questo».
E anche a prescindere dal ruolo dei vecchi e nuovi paradisi fiscali intra Ue, resta sullo sfondo il ruolo autoreferenziale degli Stati Uniti, i primi ad attaccare l’opacità fiscale di tanti tax havens (principalmente quelli in cui si rifugiavano i suoi contribuenti, dentro e fuori i confini confederali), ma anche i primi a non aver mai ratificato i trattati sul Common reporting standard, sostituiti da accordi “individuali” con le singole giurisdizioni. Questo determina un impatto non secondario sulla circolazione delle info fiscali e Aml (antiriciclaggio) perché generalmente il beneficiario effettivo può essere “schermato”. Un cittadino dell’Unione europea che detiene un conto corrente, per esempio, in Delaware, attraverso l’interposizione di un’entità giuridica (trust, fondazione, società di sede) non vedrà mai trasmesso il suo nominativo di Bo (beneficial owner) al suo stato di cittadinanza sull’altra sponda dell’Atlantic, né ad alcuna altra giurisdizione europea. Infine, e non bastasse, non tutti i fondi di investimento hanno obblighi di comunicazione negli standard Crs. Probabilmente la rete del nero internazionale è stata data per sconfitta sull’onda di un eccessivo ottimismo, o quantomeno con eccessivo anticipo.
(nella foto, la sede di Parigi) per i controlli antievasione. La base è lo scambio automatico dei dati tra Paesi