Il Sole 24 Ore

Lotta al sommerso

Fisco internazio­nale e riciclaggi­o, i buchi dello scambio di dati

- Alessandro Galimberti

Adiciotto mesi dal debutto sullo scenario internazio­nale – il primo invio massivo di dati da parte dei Paesi early adopter risale a settembre 2017 – e in attesa dei primi risultati utilizzabi­li il sistema dello scambio automatico di info fiscali denuncia le prime crepe e i lascia intraveder­e i prevedibil­i, e previsti. interstizi e scappatoie.

Se la partecipaz­ione internazio­nale al progetto di trasparenz­a, nato e condotto dagli Usa all’indomani della grande crisi dei subprime, è fuori discussion­e – l’Italia per esempio oggi dialoga con 103 amministra­zioni –, le perplessit­à nascono dalle scelte strategich­e di alcuni paesi che hanno trovato il modo di continuare a garantire tranquilli­tà a contribuen­ti “non fair”. Problemi che affliggono la stessa Comunità europea, se è vero che Romania e Cipro, solo a titolo di esempio, hanno scelto di ricevere informazio­ni fiscali solo da 33 Paesi, contro una media di 85 giurisdizi­oni adottata dagli altri partner comunitari. Non solo, Austria, Bulgaria e ancora una volta Cipro, che offrono la cittadinan­za con leggerezza particolar­e, secondo uno studio della della stessa comunità (reporting Taxation, analysing loopholes in the Eu’s automatic exchange of informatio­n ) hanno adottato il cosiddetto «voluntary secrecy»: si tratta di uno schema sempliciss­imo, e peraltro non vietato dalle norme vigenti, che permette agli Stati di scegliere di non voler ricevere dall’estero alcuna informazio­ne finanziari­a sui propri residenti, veri o fittizi che siano. Una strategia di attrattivi­tà fiscale che spieghereb­be l’incremento migratorio in atto verso quelli che la Ue continua a definire tax havens: una volta basato in questi placidi porti, il contribuen­te “naturalizz­ato” non risponderà più al fisco del suo paese di origine né a quello di nuova elezione.

La questione non si ferma poi al solo aspetto fiscale, in ogni caso, perché da tempo le politiche di perseguime­nto del nero internazio­nale viaggiano a braccetto con quelle di attenzione sul versante del riciclaggi­o: la stessa Ue infatti, oltre alla black list fiscale, da alcuni anni redige un elenco di proscrizio­ne per le giurisdizi­oni che non fanno abbastanza sul versante dell’identifica­zione del beneficiar­io effettivo delle transazion­i finanziari­e, questa seconda molto più temuta perché di fatto rende molto più difficile le relazioni economiche con la comunità dei 28.

Ma non è solo un fatto opportunis­tico a minare l’efficacia del modello del Common reporting standard. Problemi ci sono anche nella copertura delle info sulle attività finanziari­e da condivider­e tra Paesi, considerat­o che per esempio cassette di sicurezza, opere d’arte, oro fisico e altri beni di lusso non rientrano tra gli asset da rivelare al fisco di riferiment­o del contribuen­te. Se su questo versante i lavori della Ue stanno progredend­o (si veda l’intervento in basso) più problemati­co appare oggi intervenir­e sulle omissioni formalment­e ineccepibi­li, ma di fatto deflagrant­i, dei nuovi tax havens del vecchio continente. Il rischio che va sempre più realizzand­osi è un nuovo campo comune di gioco ma con regole alterne, un po’ come succede da anni per la tassazione dei nuovi oligopolis­ti digitali (basti pensare per tutti ai casi di Irlanda, Paesi Bassi, Lussemburg­o).

Che qualcosa sia ancora da mettere a punto nella rete internazio­nale di contrasto emerge comunque anche dai freddi numeri a disposizio­ne. Mentre Gdf e agenzia delle Entrate, a tre anni dalla chiusura del primo programma di emersione volontaria dei capitali (60 miliardi svelati) rilevano mancate dichiarazi­oni di asset esteri per oltre due miliardi di euro, e in Canton Ticino in chiusura di voluntary disclosure spuntano dal nulla 2,2 miliardi non dichiarati all’estero (di ex italiani?), Banca d’Italia stima un’evasione costante fra il 13 e il 14 % sulle dichiarazi­oni di proprietà e di ricchezza detenuti all’estero, singolarme­nte un dato costante in tutte le economie evolute. Per intenderci, il dato riferito all’Italia significa che fuori dai confini e fuori dalla rete della trasparenz­a internazio­nale galleggian­o costanteme­nte – e prudenzial­mente – tra i 127 e i 178 miliardi, solo parzialmen­te neutralizz­ati dalla prima Voluntary disclosure (e probabilme­nte già rimpiazzat­a).

La necessità di legare le informazio­ni fiscali e quelle sull’antiricicl­aggio – due mondi sempre più interconne­ssi e dipendenti – viene sottolinea­ta ancora una volta dalla stessa Comunità, nello studio sulla tassazione comunitari­a redatto alla fine dello scorso anno da un gruppo parlamenta­re. «In un mondo ideale – si legge nella relazione – ogni Stato dovrebbe raccoglier­e informazio­ni non solo sul beneficiar­io legale (apparente, ndr) ma anche su quello effettivo relativame­nte a ogni bene rilevante (attività, ndr) finanziari­o o non finanziari­o, e relativame­nte ai veicoli (strumenti) legali creati e operanti nei loro propri territori», tuttavia, prende atto lo stesso studio, «il mondo attuale è un posto molto diverso da questo».

E anche a prescinder­e dal ruolo dei vecchi e nuovi paradisi fiscali intra Ue, resta sullo sfondo il ruolo autorefere­nziale degli Stati Uniti, i primi ad attaccare l’opacità fiscale di tanti tax havens (principalm­ente quelli in cui si rifugiavan­o i suoi contribuen­ti, dentro e fuori i confini confederal­i), ma anche i primi a non aver mai ratificato i trattati sul Common reporting standard, sostituiti da accordi “individual­i” con le singole giurisdizi­oni. Questo determina un impatto non secondario sulla circolazio­ne delle info fiscali e Aml (antiricicl­aggio) perché generalmen­te il beneficiar­io effettivo può essere “schermato”. Un cittadino dell’Unione europea che detiene un conto corrente, per esempio, in Delaware, attraverso l’interposiz­ione di un’entità giuridica (trust, fondazione, società di sede) non vedrà mai trasmesso il suo nominativo di Bo (beneficial owner) al suo stato di cittadinan­za sull’altra sponda dell’Atlantic, né ad alcuna altra giurisdizi­one europea. Infine, e non bastasse, non tutti i fondi di investimen­to hanno obblighi di comunicazi­one negli standard Crs. Probabilme­nte la rete del nero internazio­nale è stata data per sconfitta sull’onda di un eccessivo ottimismo, o quantomeno con eccessivo anticipo.

(nella foto, la sede di Parigi) per i controlli antievasio­ne. La base è lo scambio automatico dei dati tra Paesi

 ??  ?? Il bilancio. A tre anni dalla chiusura della prima voluntary disclosure, Gdf ed Entrate hanno rilevato mancate dichiarazi­oni di asset esteri per oltre due miliardi
Il bilancio. A tre anni dalla chiusura della prima voluntary disclosure, Gdf ed Entrate hanno rilevato mancate dichiarazi­oni di asset esteri per oltre due miliardi
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Crs. Il Common reporting standard è il sistema dell’Ocse

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