Il Sud, immenso deposito dell’immaginario
Benvenuti al Sud. Ma esiste ancora? Intendo: non come luogo geografico, ma come categoria antropologica. Utopico e fatalista. Critica della modernità e scimmiottamento della modernità (tutte le virtù del meridione implicano il loro contrario). Il Sud di Silone e Carlo Levi, di Jovine e Tomasi di Lampedusa, dilatato poi nel Sud del mondo dei Garcia Marquez, Rushdie, Bolaño … Una volta ho parlato di scrittori “al sapore” di Sud, come esistono le bevande “al sapore” di arancia. Quel Sud infatti tende a diventare cliché turistico e folklore (lo stesso Franco Cassano ha dovuto rivedere il concetto di “pensiero meridiano”). Però qualcosa della sua alterità sopravvive all’omologazione patinata. Scorriamo alcuni romanzi recenti del Sud.
In La sartoria di via Chiatamone
(Nutrimenti, pagg. 176, € 13.60)) Marinella Savino racconta gli anni della guerra a Napoli in forma di commedia, benché con momenti drammatici. L’incipit è degno della Giornata
particolare di Ettore Scola: l’arrivo di
Hitler nella città partenopea, «annuccat’a fest’», con Caterina tra la folla eccitata che già intuisce gli orrori futuri. La sua sartoria diventa il rifugio di tanti amici e parenti sventurati. Una epopea tumultuosa di voci del vicolo, di strepito e di figli (ne avrà cinque), sotto i bombardamenti alleati e le angherie delle SS, fino alle Quattro Giornate di rivolta popolare. I precedenti sono, per ragioni diverse, un modello insuperato, e cioè la Pelle di Malaparte e Napoli 44 dell’ufficiale inglese Norman Lewis. Però qui il racconto è “dall’interno”, e rivela una intelligenza attenta ai dettagli. Per dire la fame di quei giorni basta un’immagine: le aiuole seminate a grano, spighe di grano sui balconi, piante di pomodori sui davanzali… E soprattutto il discorso libero indiretto, il dialetto del narratore che commenta gli eventi: «Chi l’aveva purtat’ fin’ a là?». Non vezzo alla Camilleri, ma necessità espressiva. Quando Caterina, di fronte al marito sulla sedia a rotelle confida nel tempo, sottovaluta però un nemico importante: «O scuorn’», che «s’era fatt’annanz» impadronendosi di lui. Non si potrebbe dire diversamente!
Un dialetto appena “lavorato” è anche il ritmo che scandisce la pagina di Cetti Curfino (La nave di Teseo, pagg. 252, € 12) di Massimo Maugeri. Un giornalista, Andrea Coriano, orfano di madre, incontra in prigione per scriverci sopra un libro Cetti Corfino, vedova e madre di un giovane criminaloide, rea confessa di un delitto. Attraverso i loro colloqui sfila davanti ai nostri occhi un “romanzo civile” dell’Italia di questi anni: malavita organizzata, politica corrotta, e soprattutto oppressione e umiliazione della donna, nonostante l’Emancipazione (colonna sonora è «Woman is the nigger of the world» di John Lennon). I due personaggi principali, il Cronista trentenne - esitante, eterno adolescente “adottato” da zia Miriam - e la Detenuta quarantenne - di una “bellezza selvaggia” che toglie il respiro, così determinata che infine scriverà lei il proprio libro! - , sono disegnati con accuratezza (se qualcuno ne ricavasse una fiction TV diventerebbero più banali: solo la parola può evocare tutte le sfumature che sfuggono alla piattezza dell’immagine). Ma la invenzione principale di Maugeri è la lingua che impresta a Cetti, un mezzo dialetto, un italiano sgraziato però educato a un ordine logico: «Il carcere ti mancia le ossa e nemmanco te ne accorgi… non voglio restarici nemmanco un giorno più del dovuto». O a proposito dell’omicidio (con un paio di forbici) di cui non è pentita: «Ma ce lo giuro, commissario, non lo fatto di mia volontà». Dalla grana sgualcita della sua voce riaffiora un humus profondo della Sicilia, passato attraverso la modernizzazione ma inconciliato. Alla fine lei si “libera”attraverso la scrittura, lì dove non ci sono più colpe e crimini da espiare, ma “infondinfondo” resta solo l’enigma della vita, che ogni racconto ancestrale ci ricorda.
In Il figlio di Persefone (Elliot, pagg.120, € 14,50), che si svolge nel tarantino, Maurizio Cotrona fa un’operazione straordinaria: ci offre una rilettura esperienziale del mito antico. I suoi personaggi, il paesaggio stesso (naturale e industriale) sono altrettante figure in cui riemerge il passato arcaico, come condanna e trauma, e anche come possibile utopia. Giulio e Alessandro (detto Zagreo), orfani di madre (come Andrea Coriano) giocano sulla riva dello Jonio, vicino ai ruderi: il primo ha il braccio rattrappito, il secondo vuole fare il boxeur e si sente il figlio di Persefone. Poi diventerà campione del mondo nei Pesi Leggeri. Ma con una caratteristica: quando combatte schiva i colpi e i suoi pugni, millimetrici, sono quasi senza violenza. Dotato di visione “misterica”, si crede prescelto per riportare Persefone sulla terra. Diventa una specie di santo che compie miracoli, o finge di compierli. Anche se la sua ansia palingenetica ed ecologista contiene una pulsione autodistruttiva. Al fratello Giulio, il Narratore, spetta il compito di mediare, e di trasferire quel messaggio salvifico nell’impuro mondo sublunare. Le divinità ctonie sono allineate accanto a visioni terrifiche e personaggi della cronaca: «Ade, acciaieria, Pluto, Plutone, Italsider, cane nero, rapitore di anime. Riva, nazione, cronide, assassinio di Stato, teratogeno, diossina…». Le ciminiere sembrano aspirare le stelle, ma la primavera tornerà… Con il suo romanzo, quasi un racconto lungo (in controtendenza rispetto alle fluviali opere-mondo), scritto in una prosa realistica e potentemente visionaria, Cotrona dà una risposta indiretta all’interrogativo iniziale. Il Sud esiste anzitutto nel passato culturale, nell’immenso deposito dell’immaginario. Ma dipende sempre e solo dal singolo decidere di attualizzare - in un gesto - il passato, le promesse di liberazione che pure contiene, accanto al dolore. Dipende da lui “inventare”ogni volta il Sud, e così in quel momento “inventare” anche se stesso.