I DIVARI TRA LE REGIONI E L’ALIBI DELL’IMMOBILISMO
L’autonomia differenziata per le Regioni è oggetto di un braccio di ferro tra i due partiti di governo e tra la maggioranza e l’opposizione, ma senza una riflessione su quale forma di governo sarebbe oggi più efficace. Il confronto è ancora una volta ideologico: alcuni dicono che riconoscendo maggiore autonomia si intende «spaccare il Paese», aumentando le differenze tra Nord e Sud; altri ritengono necessario e costituzionalmente corretto riconoscere maggiore autonomia alle regioni più virtuose.
Occorrerebbe partire ragionando su che cosa è accaduto in questi anni e in che condizioni è il nostro Paese, sia dal punto di vista economico sia da quello amministrativo, e quanto abbia pesato la buona o cattiva performance delle regioni.
Se pensiamo agli strumenti di governo di uno stato regionale non possiamo non riconoscere la debolezza dell’attuale sistema.
I costi standard e i livelli essenziali delle prestazioni sono stati elaborati con grande fatica, ma per niente applicati. Sistemi volti a premiare le amministrazioni virtuose (università, comuni, Asl, eccetera) fanno emergere rigurgiti sessantottini, per i quali bisogna dare di più a chi sta indietro, senza valutare se chi sta indietro occupa quella posizione (il più delle volte) perché ha speso e spende male. Le classifiche sull’efficienza delle pubbliche amministrazioni o sulla spesa per fondi europei vengono solitamente nascoste o edulcorate, mai utilizzate per ovvie ragioni politiche. Su questo modo di operare si raggiunge nella prassi l’unanimità dell’arco costituzionale. Tanto meno vengono utilizzate classifiche sulla qualità della vita sempre più puntuali, elaborate da soggetti esterni (quotidiani come Il Sole 24 Ore o associazioni tipo Legambiente); mentre ci si ostina su norme in materia di performance e su sistemi sofisticati di valutazione che poi non hanno alcuna rilevanza nella governance reale di un’amministrazione e sulla qualità dei servizi.
È un bene pertanto affrontare il tema dell’autonomia differenziata con attenzione. Essa è stata da molti sottovalutata secondo la logica del “comprare tempo”. Abbiamo un’emergenza che non è data dalla necessità di trovare un accordo tra Lega e 5Stelle su questo tema: in ampie zone del Paese le istituzioni e le amministrazioni non ci sono e non funzionano, e spesso questo accade al Sud.
Senza scomodare Banfield o Putnam, ci si deve porre l’interrogativo se non serva una autonomia differenziata che porti anche a ridurre le competenze ordinarie di alcune regioni e all’esercizio reale di un potere sostitutivo. Per parlare di un tema di attualità basti pensare al diverso approccio delle regioni alle assunzioni di personale, da ultimo dei “navigator”. C’è chi pensa ai servizi e chi pensa alla stabilizzazione del precariato storico.
Dovrebbe essere noto che amministrazioni che reclutano male e che piegano l’amministrazione agli interessi di pochi, degli insider piuttosto che a quelli dei cittadini, hanno naturalmente una performance peggiore.
Evitiamo allora che dietro parole belle e nobili come «solidarietà nazionale» si continuino a nascondere le inefficienze di sempre. Si possono rinviare i provvedimenti «spacca-Italia», come sono stati definiti da molti, ma sapendo che il nostro Paese deve fare i conti con il tema di una efficiente e adeguata ripartizione delle funzioni e competenze.
Molti pongono come problema, e come fonte di rischio nel procedere verso il regionalismo differenziato, la mancanza di uno Stato forte, di un centro capace di governare le differenze presenti oggi in termini di efficienza istituzionale e ricchezza. Se questo è il motivo, non basta fermare il regionalismo. Serve ristrutturare il centro, ridisegnare e potenziare i ministeri, così come le agenzie nazionali che risentono della debolezza delle amministrazioni controllanti. E avviare un reclutamento mirato rispetto a funzioni centrali di coordinamento.
Inoltre, se si ha paura della scissione e dell’aumento dei divari in Italia, dobbiamo ricordare che già oggi abbiamo livelli di autonomia mal utilizzati, fonte di divari importantissimi in termini di diritti sociali e servizi. Dobbiamo ricordare ancora una volta che il divario non è costituito solo da una diversa distribuzione di risorse, ma il più delle volte da una diversa capacità di spenderle. Basta vedere come vengono spesi i fondi europei o gestite la sanità e la formazione al Sud.
Sarebbe miope concludere che, poiché non si riesce a migliorare e riorganizzare l’amministrazione centrale e la sua capacità di intervento, allora è meglio che rimanga tutto così. Ci sembra questa, da molti proposti, una non scelta che rischia solo di peggiorare ancora la performance della nostra già fragile democrazia.