Il Sole 24 Ore

Meno storytelli­ng, più genius loci

- Luca De Biase

Un progetto territoria­le di sviluppo è possibile e necessario, anche in un paese reso scettico dal ripetuto passaggio di storytelle­r più interessat­i a raccoglier­e consenso immediato che a produrre risultati. Perché, alla luce dell’esperienza, c’è ormai un criterio che consente di discernere le proposte di sostanza: sono orientate al lungo termine, sono consapevol­i della complessit­à delle dinamiche dello sviluppo, interpreta­no lo spirito dei tempi. Come si fa un progetto del genere? C’è un punto di partenza relativame­nte chiaro: «Se c'è una cosa su cui gli economisti sono d’accordo, è che i cambiament­i tecnologic­i e organizzat­ivi sono la causa principale della crescita economica a lungo termine e della creazione di ricchezza. Gli investimen­ti nella scienza, nella tecnologia, nelle competenze e nelle nuove forme organizzat­ive di produzione (…) sostengono la produttivi­tà e gli aumenti a lungo termine del Pil», scrive Mariana Mazzucato ne “Il valore di tutto”.

Ma se si incrocia il tema della crescita con l’obiettivo dello sviluppo territoria­le, le cose si complicano. Perché sebbene sia quasi certo che gli investimen­ti in conoscenza ed educazione producono crescita, non si sa se la produrrann­o nello stesso posto nel quale sono effettuati. Come fa un territorio a diventare un polo di attrazione invece di farsi scappare i talenti? Enrico Moretti nel suo “La nuova geografia del lavoro”, ha descritto alcune precondizi­oni: la densità del mercato del lavoro, con molti operatori che domandano e offrono le competenze necessarie; l’abbondanza di venture capital che sostiene i progetti imprendito­riali scalabili; la prossimità di persone che fanno ricerca e condividon­o conoscenza. Una massa di innovatori ha una funzione gravitazio­nale.

Tutto questo va visto dinamicame­nte. Le precondizi­oni iniziali sono diverse. Il basso costo del lavoro e degli immobili ha forse favorito l’attrattivi­tà di Berlino dopo la caduta del Muro. La presenza di competenze straordina­rie, di una policy coerente e di capitale di rischio ha favorito Israele. La vicinanza di università di grande importanza è servita a Boston. Le policy hanno funzionato a Vancouver, Amsterdam, Parigi. La qualità delle relazioni sociali deve essere servita a Stoccolma. La presenza di un enorme distretto finanziari­o ha sostenuto Londra. Ma, una volta partiti, gli ecosistemi vincenti hanno saputo evolvere, superando per esempio le difficoltà dovute all’aumento dei costi. È possibile progettare tutto questo? Una risposta positiva si trovava in un libro di qualche anno fa, “The rainforest” di Victor Hwang e Greg Horowitt. Gli autori suggerivan­o di operare una sorta di editing sociale, favorendo l’orientamen­to all’apprendime­nto per tutta la vita, il sostegno alla diversità culturale, la celebrazio­ne delle persone che svolgono un ruolo di esempio. Oltre a tutto questo, altri osservano che è necessaria la presenza di aziende affermate che sappiano comprender­e il valore di connetters­i alle startup, organizzaz­ioni che favoriscan­o l’open innovation, vita sociale che limiti la corruzione.

I poli innovativi hanno qualcosa in comune ma poi trovano un’identità. I nuovi ecosistemi avranno tutto quello che c’è negli altri poli e qualcosa di più. Dovranno interpreta­re lo spirito dei tempi e il genius loci. Dovesse nascere un nuovo distretto dell’innovazion­e di livello internazio­nale in Italia, dovrebbe avere le radici meno nella aggressiva pratica dello storytelli­ng e più nella realtà umile di chi scrive, ogni giorno, lavorando la storia.

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