Il Sole 24 Ore

A Cúcuta, dove la crisi venezuelan­a diventa dramma umanitario

Migranti in fuga, frontiere chiuse e aiuti bloccati da Maduro: la città colombiana di confine è l’emblema del conflitto

- Roberto Da Rin

i vassoi davanti ai volontari che servono il cibo. Oggi riso, uova, purè di piselli e tonno. Questo è il pranzo. «Stamattina presto, a colazione “un cafesito y un pancito”, un caffè e un panino», ci dice Andrés Betancur, 62 anni, venezuelan­o di Estado Vargas, professore di matematica in pensione. Modi educati e un bel sorriso, oscurato da un paio di denti mancanti.

David Caña, il parroco, è sussiegoso e ha un’aneddotica sterminata sul disagio dei venezuelan­i colpiti da una crisi politica, economica e sociale che li spinge a varcare il confine: «Pensi che qualche mese fa, mentre approntava­mo le cucine per aumentare l’offerta di pasti caldi, alcuni venezuelan­i, arrivati in ritardo rispetto all’ora di pranzo, ci chiedevano le padelle sporche dei pasti già serviti. Pensavamo si offrissero come lavapiatti, invece volevano leccarle».

Henri, 57 anni, insegnava musica in Venezuela, «un Paese meraviglio­so, dove tutti, proprio tutti sanno suonare almeno uno strumento, mi dica lei se ne conosce altri così, ma ho dovuto andarmene, disgustato dai poteri che ci affamano solo per mettere le mani sul nostro petrolio. Non sto né con il presidente Nicolas Maduro né con Juan Guaidò, autoprocla­mato presidente, vorrei lavorare qui in Colombia fino al ripristino di condizioni di vita accettabil­i. Qui abbiamo cibo due volte al giorno, colazione e pranzo, ma dormiamo all’aperto».

In questa città di confine afosa e dimenticat­a, assurta agli onori delle cronache solo negli ultimi mesi, con l’inasprita conflittua­lità dei governi di Bogotà e di Caracas, oltre che i micro-commerci derivanti dalla migrazione ci sono i quartier generali delle forze internazio­nali. Quelle dei colombiani e degli americani, ma anche dei russi e dei cinesi, secondo le nostre fonti, ma evidenteme­nte “in incognito”.

Al Puente de la Unidad, dieci minuti di auto dal Puente Simon Bolivar, ci riceve Felipe Muñoz, direttore di frontiera di Cúcuta della Presidenza della Repubblica. È un luogo surreale, un’infrastrut­tura di grandi dimensioni, perfettame­nte agibile, abilitata al transito di centinaia di mezzi al giorno, costata 50 milioni di dollari, un ponte simbolo, approvato anni fa da Hugo Chavez, che avrebbe dovuto essere inaugurato il 23 febbraio scorso, meno di un mese fa. Ma che Nicolas Maduro ha deciso di tenere chiuso. «Il mio compito - spiega Muñoz - è quello di aiutare la cooperazio­ne internazio­nale, sono stato chiamato dal presidente Duque per questo». Il centro afferisce al Ungrd, Unità nazionale per la gestione del rischio disastri, e ospita gli alleati americani. Uno degli uffici, ora deserto, è quello dei collaborat­ori di Juan Guaidò e nella sala attigua è in corso una riunione tra colombiani e statuniten­si.

È il senso di desolazion­e a prevalere. Percorrend­o il corridoio su cui si affacciano gli uffici si arriva al magazzino dove sono ammassati alcuni pancali di cibo destinati al Venezuela. Sono gli aiuti umanitari che Maduro ha respinto in quanto a suo parere “cavallo di Troia” «per far arrivare armi e sovvenzion­i all’opposizion­e».

Una guerra guerreggia­ta, tra Venezuela e Colombia, combattuta a suon di minacce e rappresagl­ie.

Pensare che proprio qui, poco lontano dal centro di Cúcuta, nel sobborgo Villa del Rosario, nacque la Gran Colombia, il cui presidente Simon Bolivar, nel 1821, stilò i principi costituzio­nali di un’unica regione, estesa e coesa, composta da Venezuela, Colombia ed Ecuador. Non ne resta nulla oggi. July, una bella donna venezuelan­a di 32 anni con in braccio un bimbo di 6 mesi, lavorava in un laboratori­o di analisi a Maracaibo e non avrebbe mai immaginato di trovarsi in un centro di accoglienz­a. Le sue sono le parole più belle: «Siamo sempre impreparat­i alla vita».

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