Il Sole 24 Ore

PERCHÉ CONVIENE A TUTTI UN FISCO AMICO DELLE IMPRESE

- di Alessandro Penati

Pd e Forza Italia hanno presentato al Senato due mozioni di sfiducia nei confronti del ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli. Sparare sulla Croce Rossa è vietato dalle Convenzion­i di Ginevra. Ma le opposizion­i, caritatevo­li dame di San Vincenzo, agiscono a fin di bene. Il ministro dice di lavorare 14-16 ore al giorno. Uno Stachanov. E aggiunge che la moglie è preoccupat­a per la sua salute. Perciò i firmatari delle mozioni intendono concedere a questo Signor No in servizio permanente effettivo un meritato riposo. Anche perché solo chi non fa non sbaglia. E lui invece...

Ma tali iniziative difficilme­nte saranno coronate da successo. Infatti Toninelli ha buone probabilit­à di rimanere al proprio posto fino alla caduta dell’intera compagine ministeria­le. A causa delle continue baruffe tra i due alleati-avversari, pende più della Torre di Pisa. Ma ancora non si decide a venir giù.

A favore del ministro congiurano due motivi: uno istituzion­ale e l’altro politico. Fin dalla prima legislatur­a sono state presentate mozioni di censura a singoli ministri. Allora lo scrutinio segreto faceva il bello e il cattivo tempo. Perciò c’era il rischio che le predette mozioni, grazie all’ausilio dei franchi tiratori, passassero. Con il risultato che i ministri avrebbero subìto uno smacco che si sarebbe riflesso sull’intero gabinetto. Si affermò così la prassi della questione di fiducia posta dal governo sul rigetto di tali mozioni. Si votava perciò per appello nominale, ossia a scrutinio palese. E le mozioni erano regolarmen­te respinte. A un certo punto sono state presentate vere e proprie mozioni di sfiducia al singolo ministro. Che fare?

In un parere del 19 marzo 1984, la giunta per il regolament­o del Senato, sotto la presidenza di Francesco Cossiga, disse sì a queste mozioni. Ma a ben precise condizioni. A patto che si applicasse­ro le stesse regole stabilite dall’articolo 94 della Costituzio­ne per le mozioni di sfiducia al governo.

Pertanto vanno sottoscrit­te da almeno un decimo dei componenti della Camera, non possono essere messe in discussion­e prima di tre giorni dalla presentazi­one e vanno votate per appello nominale. Mozioni di tal fatta ne sono state pre- sentate parecchie negli ultimi decenni. Ma il governo ha fatto sempre quadrato attorno ai ministri. Salvo una volta, quando la mozione di sfiducia nei confronti del ministro della Giustizia del governo Dini, Filippo Mancuso, fu approvata dall’assemblea di Palazzo Madama nella seduta del 19 ottobre 1995.

La mozione ebbe successo perché fu la stessa maggioranz­a parlamenta­re a volersi sbarazzare di un ministro che con il proprio operato contestava l’indirizzo politico di governo. Paradossal­mente, la mozione di sfiducia al singolo ministro, anziché alle opposizion­i, è servita alla maggioranz­a per sbarcare un ministro indiscipli­nato. Un surrogato di quel potere di revoca da parte del governo che non è previsto espressame­nte dalla Costituzio­ne. Mancuso, siculo fumantino, visse quel voto come un affronto. «A mia!», scrisse Indro Montanelli per interpreta­rne i risentimen­ti. E sollevò un conflitto di attribuzio­ne nei confronti del Senato, del presidente del Consiglio e del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, da amico diventato acerrimo nemico. Ma la Corte costituzio­nale (sentenza n. 7 del 1996) respinse il ricorso perché considerò legittima la mozione in quanto compatibil­e con la forma di governo parlamenta­re.

Perciò Toninelli può dormire sonni tranquilli. Per ora. Anche perché il Senato voterà su di lui domani, dopo aver giudicato oggi Salvini per il caso Diciotti. Finirà a tarallucci e vino. Con l’ennesimo do ut des.

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