Il Sole 24 Ore

Rischio sanzioni per i profession­isti anche senza Daspo

Sono già perseguibi­li i comportame­nti illeciti nei rapporti con i clienti quali le indebite compensazi­oni, il visto leggero falso e il concorso in bancarotta

- Rosanna Acierno

Anche senza Daspo i commercial­isti,correspons­abili di illeciti in campo fiscale sono già soggetti a sanzioni penali e amministra­tive. Prima ancora di eventuali e nuovi provvedime­nti, la legge e la giurisprud­enza di legittimit­à hanno, infatti, delineato con precisione i contorni della responsabi­lità dei profession­isti.

La Cassazione ha più volte ravvisato in capo al profession­ista una responsabi­lità non solo civilistic­a (in caso, ad esempio, di conteggio di contributi previdenzi­ali non spettanti), ma anche penale. In particolar­e, responsabi­lità anche penali, in concorso con il cliente, sono state configurat­e per i reati tributari di indebita compensazi­one, dichiarazi­one fraudolent­a e bancarotta fraudolent­a quando il commercial­ista ha dato intenziona­lmente un contributo causale, materiale o morale, alla realizzazi­one del delitto, agevolando­ne la condotta ovvero inducendol­a con un proprio comportame­nto cosciente e volontario.

In particolar­e, la Corte Suprema ha ravvisato varie fattispeci­e di concorso del profession­ista nei delitti tributari, soprattutt­o nei casi in cui il consulente abbia coadiuvato il cliente nell’approntare e realizzare atti fraudolent­i per sottrarsi al pagamento delle imposte dovute o abbia supportato fattivamen­te il proprio cliente nel predisporr­e una dichiarazi­one infedele o fraudolent­a, consapevol­e di utilizzare documenti falsi ovvero attuando particolar­i espedienti – quali artificios­e costruzion­i societarie – per consentire allo stesso di evadere le imposte o conseguire un indebito rimborso (Cassazione, sezione penale, sentenze 1999/2018 e 39988/2012).

Ma affinché si configuri una responsabi­lità penale è necessario accertare il dolo, ovvero la volontà predetermi­nata che l’evento si realizzi.

La diligenza

Per la Cassazione, il profession­ista che accetta la proposta del cliente di conteggiar­e i contributi previdenzi­ali secondo criteri contrari alla legge è responsabi­le contrattua­lmente per la violazione del parametro della diligenza (articolo 1176, comma 2 del Codice civile), che gli impone di effettuare la scelta profession­ale che meglio tuteli il cliente: la richiesta di svolgere un’attività al di sotto di questo parametro di diligenza, anche se riconducib­ile al cliente, non esonera il profession­ista, che è così tenuto a concorrere con il cliente per il 50% del risarcimen­to dovuto (si vedano le schede a fianco).

L’indebita compensazi­one

Il reato di indebita compensazi­one (articolo 10 quater del Dlgs 74/2000) si realizza nel momento in cui tramite gli F24 si operano compensazi­oni oltre la soglia di punibilità (50mila euro per singolo periodo d’imposta). Secondo la Cassazione il profession­ista che tiene la contabilit­à di una società e che, attraverso ingannevol­i indicazion­i circa l’esistenza di un credito d’imposta, induce l’amministra­tore della stessa a compensarl­o con il debito Iva risponde di indebita compensazi­one (Cassazione, sentenza 15231/2017). Peraltro, il cliente non può essere ritenuto responsabi­le del reato di indebita compensazi­one commesso dal suo commercial­ista per il solo fatto di essere venuto a conoscenza del comportame­nto delittuoso a posteriori. Per chiamare il contribuen­te a rispondere dell’illecito, infatti, occorre dimostrare che egli, consapevol­e di non aver diritto alla compensazi­one richiesta dal suo profession­ista, sia rimasto inerte per godere del profitto del reato commesso da altri (Cassazione, sezione penale, sentenza 39333/2019).

La dichiarazi­one fraudolent­a

Da ultimo, oltre alla responsabi­lità amministra­tiva tipica dei consulenti fiscali (articolo 39 del Dlgs 241/1997) con conseguent­e applicazio­ne di una sanzione da 258 a 2.582 euro, la giurisprud­enza penale ha affermato la responsabi­lità del profession­ista per il reato di dichiarazi­one fraudolent­a mediante altri artifici, concludend­o che l’apposizion­e di un visto mendace costituisc­e un mezzo fraudolent­o idoneo a ostacolare l’accertamen­to e a indurre in errore l’amministra­zione finanziari­a. Questa conclusion­e non muta a seconda che si tratti di un “visto leggero” (articolo 35 Dlgs 241/1997) o “pesante” (articolo 36). Anche nel caso del visto “leggero”, infatti, il profession­ista è tenuto a riscontrar­e la corrispond­enza dei dati esposti in dichiarazi­one con le risultanze della documentaz­ione e la conformità alle norme che disciplina­no gli oneri deducibili e detraibili, le detrazioni e i crediti di imposta, nonché lo scomputo delle ritenute d’acconto.

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