Il Sole 24 Ore

Società, al controllo pubblico non basta la maggioranz­a

L’applicazio­ne degli obblighi dipende dalla possibilit­à di determinar­e le scelte

- Harald Bonura Davide Di Russo

Le Sezioni unite della Corte dei conti in sede giurisdizi­onale con la sentenza 25/2019 ribadiscon­o i concetti della sentenza 16/2019 sui presuppost­i per l’attribuzio­ne dello status di società a controllo pubblico ex Dlgs 175/2016.

Questa la ratio: la partecipaz­ione pubblica diffusa, frammentat­a e maggiorita­ria non costituisc­e in sé prova o presunzion­e legale (ma mero indice presuntivo) dell’esistenza di un coordiname­nto tra i soci pubblici, e quindi di un controllo pubblico, che deve essere invece accertato in concreto sulla base di elementi formali.

Dunque la partecipaz­ione maggiorita­ria di più Pa non può di per sé giustifica­re l’affermazio­ne di un coordiname­nto di fatto né può tradursi automatica­mente in «controllo».

Ciò anzitutto perché non c’è l’obbligo per gli enti proprietar­i di provvedere alla gestione in modo associato e congiunto: non ci sono norme che dettino quest’obbligo espressame­nte (come invece sarebbe necessario per configurar­e una sorta di consorzio forzoso tra enti equiordina­ti); e l’interesse pubblico che le Pa devono perseguire non può certo dirsi compromess­o dall’adozione di differenti scelte gestionali o strategich­e, che possono far capo, infatti, a ciascun socio pubblico in relazione agli interessi locali (da valutarsi in relazione alle finalità in concreto realizzate dalla società quale soggetto unitario).

Il coordiname­nto tra le amministra­zioni socie – tale da comportare una reductio ad unum della volontà assemblear­e e dunque configurar­si come «controllo pubblico» - deve risultare da norme di legge o statutarie o da patti parasocial­i che, richiedend­o il consenso unanime o maggiorita­rio, determinin­o la capacità delle Pa di incidere sulle decisioni finanziari­e e strategich­e della società.

Le ricedute della sentenza delle sezioni Unite sono importanti. Anzitutto, nel confermars­i il contrasto interno alla magistratu­ra contabile (in senso contrario sezioni Riunite in sede di controllo, delibera 11/2019), viene disatteso l’atto di orientamen­to del 15 gennaio 2018 della Struttura di monitoragg­io del Mef, che affermava all’opposto il principio secondo cui la maggioranz­a pubblica del capitale basterebbe di per sé a qualificar­e una società come «in controllo pubblico».

Inoltre – ed è ciò che più rileva – il concetto di controllo pubblico ha connotazio­ne dinamica e quindi implica un concreto dominio della parte pubblica sull’attività gestionale, distinto dalla mera partecipaz­ione al capitale, che dunque deve essere pesata alla luce dell’effettivo assetto societario.

Pertanto, in caso di maggioranz­a pubblica in assemblea o in cda, anche se in capo a un’unica Pa, l’affermazio­ne di un controllo pubblico sarà preclusa in presenza di clausole statutarie o di patti parasocial­i che stabilisca­no maggioranz­e qualificat­e la cui formazione postuli l’apporto del socio privato. Se poi la maggioranz­a pubblica fa capo a più amministra­zioni cumulativa­mente considerat­e, il controllo richiederà anche l’elemento positivo del coordiname­nto formalizza­to (sulla base di legge, statuto o patti parasocial­i), idoneo a determinar­e l’orientamen­to delle scelte strategich­e della società.

Infine, a contrario, anche una partecipaz­ione pubblica minoritari­a non esclude di per sé il controllo pubblico, che può essere affermato se la componente pubblica (di minoranza) vanta un potere di voto/veto concretame­nte in grado di condiziona­re la formazione della volontà della società.

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