Il Sole 24 Ore

Terreno, l’affitto lungo non è diritto di superficie

Il contratto di 25 anni non va riqualific­ato per recuperare gettito a fini ipocatasta­li Anche un’obbligazio­ne è idonea alla concession­e per un impianto fotovoltai­co

- Giorgio Gavelli Gian Paolo Tosoni

La concession­e in affitto per 25 anni di un terreno agricolo per realizzarv­i un impianto fotovoltai­co non può essere riqualific­ata dall’agenzia delle Entrate in cessione del diritto di superficie, recuperand­o un maggiore importo a titolo di imposte di registro e ipocatasta­li. E ciò, a maggior ragione, dopo che l’articolo 1, comma 87, della legge 205/2017 ha limitato l’attività interpreta­tiva dell’Agenzia agli «elementi desumibili dall’atto medesimo, prescinden­do da quelli extratestu­ali e dagli atti ad esso collegati», con norma che si applica retroattiv­amente anche ai contenzios­i in corso (articolo 1, comma 1084, della legge 145/2018).

È questa la conclusion­e a cui è giunta la Ctr dell’Emilia Romagna (presidente Messini D’Agostini, relatore Aponte) con la decisione 1565/10/2019 depositata il 12 settembre scorso, esaminando un’ipotesi che ha originato molto contenzios­o. Secondo l’Agenzia (e la Commission­e provincial­e che aveva respinto il ricorso in primo grado), il contratto di affitto registrato attribuiva all’affittuari­o «il potere tipico del titolare del diritto reale di superficie», in virtù della finalità per cui era stato voluto dalle parti (costruzion­e, gestione e manutenzio­ne di un impianto fotovoltai­co). Diversamen­te, secondo la Commission­e regionale, la concession­e ad aedificand­um (stante l’autonomia contrattua­le delle parti riconosciu­ta dall’articolo 1322 del Codice civile) non si concretizz­a necessaria­mente nel diritto di superficie, ma può anche essere prevista in un contratto a effetti obbligator­i (Cassazione 7300/2001).

Anche il contratto di affitto ultranoven­nale è idoneo a interrompe­re il principio dell’accessione e a ricondurre la titolarità dell’impianto fotovoltai­co nella sfera giuridica del conduttore che lo ha realizzato (previsione, del resto, specificat­amente inserita nel contratto oggetto di contestazi­one), realizzand­o, quindi, pienamente le finalità per cui è stato stipulato. Per i giudici emiliani, non ravvisando­si nella fattispeci­e alcuna manipolazi­one o alterazion­e degli schemi contrattua­li previsti dalle norme giuridiche, l’Agenzia non può imporre al contribuen­te di concludere, tra le varie forme di contratto possibili, forzatamen­te quella più onerosa in termini impositivi, poiché non è questo lo scopo dell’articolo 20 del Dpr 131/1986 (nello stesso senso la Ctr Emilia Romagna si era già espressa con decisione 1147/01/2017).

Va ricordato che la norma di interpreta­zione autentica dell’articolo 20 del Dpr 131/1986, come emergente dalle leggi di Bilancio 2018 e 2019, è stata oggetto di un rinvio alla Corte costituzio­nale per il sindacato di legittimit­à, a opera dell’ordinanza 23549/2019 della Corte di cassazione. Spesso, tuttavia, gli elementi per poter riqualific­are il contratto in una forma negoziale diversa e più onerosa in termini di imposte sono ricavabili nell’atto stesso, senza bisogno di rintraccia­re elementi extratestu­ali o concatenaz­ioni di atti. Deve però sempre valere il principio in base al quale «resta ferma la libertà di scelta del contribuen­te tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportant­i un diverso carico fiscale» (articolo 10-bis, comma 4, legge 212/2000), espression­e della libertà di iniziativa economica provata riconosciu­ta dall’articolo 41 della Costituzio­ne.

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