Emanuele Severino, il filosofo dell’Essere
Il 17 gennaio è morto Emanuele Severino, ieri la famiglia ha diffuso la notizia a esequie avvenute. Filosofo tra i più noti e tradotti, lodato da Heidegger per la sua tesi di laurea, Severino considerava il cadavere come ultima forma che il corpo presenta. Da tempo aveva chiesto di essere cremato, per mettere le proprie ceneri vicino a quelle delle persone amate. Auspicava di andarsene dalla vita da solo, standosene in casa.
Difficile riassumere il suo lascito e l’importanza che ha avuto nel panorama filosofico attuale. Certo, non fu un pensatore analitico, né volle essere un filosofo da televisione o da contatti social; meno che mai sentì il bisogno di trasformarsi in presenzialista per questa o quella manifestazione. Egli, per dirla in breve, credeva ancora in una filosofia superiore ai dettagli e alle contingenze. È quella che delineò nel 1958 nell’opera La struttura originaria, che dedicò alla verità dell’essere, il quale secondo la “via del giorno” indicata dall’antico Parmenide «è e non può non essere».
Non era facile seguire Severino, ma il suo discorso era sostenuto da una logica che non lasciava spazio a obiezioni. Quello che colpiva era il fascino che esercitava sugli interlocutori. Sia che parlasse di tecnica o di Dio o riprendesse il discorso del 1964, quando nella “Rivista di filosofia neoscolastica” pubblicò il saggio Ritornare a Parmenide, in cui affermava che tutti gli enti, in quanto “sono”, sono eterni.
Quelle pagine fecero definitivamente scoppiare lo “scandalo” che qualche anno più tardi farà allontanare Severino dalla Cattolica. Lui non provò mai alcun risentimento e anche gli incontri che avrà successivamente con il cardinal Ravasi o con l’amico Giovanni Reale (memorabile un loro dibattito su Dio il 28 ottobre 2010) mostravano un pensatore che non si era mai allontanato dalla “Gioia” che ci attende dopo la vita.
Conoscitore impeccabile del greco, citava Tommaso d’Aquino e la Bibbia in latino, leggeva Kant in tedesco, Cartesio in francese, Hume in inglese. Lo faceva però con semplicità, come quando parlava del nichilismo dell’Occidente che si è sedimentato nella «struttura delle lingue indoeuropee e nel modo di concepire l’agire» (tema affrontato in Destino della necessità del 1980). Ma come si fa a ricordare tutti i suoi libri, le sue ricerche? Ha lasciato pagine importanti su Leopardi ed Eschilo, Aristotele e Carnap, su molti altri pensatori. Amava ripetere che le sue opere teoretiche erano pubblicate e ristampate nella collana di filosofia di Adelphi, che egli stesso aveva inaugurato.
Severino amava confidare che l’insegnante è quello che ripete una lezione, il maestro è chi insieme agli allievi individua una strada per cercare, scoprire, studiare. Lui era un maestro. Lo scrivente ne ebbe la certezza quando un giorno decise di marinare la scuola per ascoltare una sua lezione in Cattolica. Alla fine ritirava dei foglietti con eventuali domande. Non ricordo più cosa chiese il vostro cronista, ma la sua risposta cominciava così: «Tutte le vite che vivo, le vivo eternamente; tutto ciò che decido, l’ho già eternamente deciso». Aveva ragione? Ora che è nella “Gioia” lui lo sa.