Una imposta che naviga nel mare delle differenze
Già da molti anni l’Irpef non è più «l’imposta di tutti», come l’aveva giustamente definita Il Sole 24 Ore nell’ottobre del 1973, quando fu pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto presidenziale che la istituiva. Non è più «l’imposta di tutti» perché l’Irpef – destinata a tassare tutte le tipologie di reddito (con poche eccezioni) e tutti i contribuenti in misura uniforme – ha visto da un lato moltiplicarsi la nascita di imposte sostitutive e cedolari, che escludono taluni redditi dalla tassazione progressiva. E dall’altro lato, ha dovuto fare i conti con il convincimento di una maggior fedeltà fiscale dei lavoratori dipendenti rispetto ad autonomi e partite Iva.
Non a caso, si dice che l’Irpef sia diventata l’imposta su lavoratori dipendenti, collaboratori e pensionati, visto che quasi l’86% dei contribuenti (35 milioni di soggetti), dichiara proprio questi redditi. Ci si scorda spesso che restano 5-6 milioni di contribuenti che hanno invece redditi di altra natura pure tassati con Irpef, in prevalenza imprenditori, soggetti che partecipano a società di persone, lavoratori autonomi e titolari di redditi diversi.
La cosa che sorprende è che, quando si parla di Irpef, si pensa sempre meno a queste categorie. E neppure agli oltre 14,5 milioni di pensionati che, almeno a partire dal Bonus Renzi, sono stati spesso ignorati dalle iniziative per ridurre il peso del prelievo.
Molti studi evidenziano come uno dei principali difetti dell’Irpef attuale sia l’andamento, diciamo, “estemporaneo” delle aliquote marginali effettive (implicite, come le chiamano gli studiosi, per differenziarle da quelle esplicite, ovvero di legge). Si tratta di un andamento che dipende da un groviglio stratificato di detrazioni per lavoro, detrazioni per carichi di famiglia, addizionali e bonus mensile da 80 euro (in procinto di passare a 100), con la doppia stravaganza di un’aliquota marginale che diventa negativa quando entrano in gioco gli 80 euro o che fa vertiginosi balzi all’insù quando scattano le addizionali locali. Questa è anche la principale causa di una progressività eccessiva sui redditi più bassi, che di fatto si appiattisce dopo i 30-40mila euro.
C’è poi un’ulteriore aggravante: detrazioni e bonus si applicano in modo differenziato in base alle diverse tipologie di contribuenti, a vantaggio dei dipendenti, probabilmente come portato politico-culturale della centralità del lavoro subordinato (lo dice anche Luigi Marattin sul Foglio di lunedì). Così, per i redditi fino a 3035mila euro, l’aliquota media – cioè quella calcolata in base all’imposta effettivamente pagata sul proprio reddito netto – è più elevata per i pensionati e per le partite Iva rispetto ai dipendenti (fanno eccezione i forfettari, che sono penalizzati quando il loro reddito è molto basso ma che per i redditi più elevati possono contare sui vantaggi dell’aliquota fissa del 15%, comprensiva anche di addizionali e Irap, e senza pagare l’Iva, con notevoli vantaggi anche rispetto ai dipendenti a pari livello di reddito). L’uniformità del prelievo per tutte le tipologie arriva solo quando il reddito sale, ovvero quando smettono di incidere detrazioni e bonus.
Per le partite Iva, il sistema attuale – con un approccio discutibile – sembra in qualche modo affondare le sue ragioni nel fatto che questi contribuenti abbiano, per così dire, maggiori possibilità di sfruttare la complessità del sistema fiscale per “modulare” il loro debito con il fisco, soprattutto rispetto alla fedeltà “obbligatoria” alla quale il sistema dei sostituti di imposta costringe i dipendenti (pur con qualche eccezione). Sono storture alle quali si dovrà rimediare, se davvero sarà possibile avviare un percorso organico di riforma dell’imposta personale. Si dovranno evidentemente impedire comportamenti non corretti, ma sarà consigliabile farlo all’interno di un sistema meno sperequato di tassazione.