Sconti, bonus e flat: Irpef fuori controllo
Per i redditi medio-bassi differenze di oltre 100 volte tra autonomi e dipendenti
A un autonomo con 20mila euro di reddito il Fisco può chiedere fino a 106 volte in più rispetto a quanto pretende da un dipendente con le stesse entrate. L’incrocio di detrazioni, bonus e regimi speciali moltiplica le differenze irrazionali di tassazione fra le diverse tipologie di contribuenti. Penalizzando, tra i redditi medio-bassi, autonomi e pensionati rispetto ai dipendenti. E le differenze crescono all’aumentare dei famigliari a carico. Da qui parte il dibattito sulla riforma Irpef a cui lavora il governo.
I paradossi della tassazione alimentano il dibattito nella maggioranza sulla riforma dell’imposta sui redditi
Per il fisco italiano 20mila euro di reddito prodotti da un professionista o un autonomo in genere possono valere fino a 106 volte di più degli stessi 20mila euro guadagnati da un lavoratore dipendente. E preziosissimi, agli occhi dello stesso Fisco, sono anche i 20mila euro ricevuti da un pensionato: valgono il 20% in meno di quelli dell’autonomo, ma pesano 84 volte tanto quelli del dipendente. Almeno a giudicare dal conto delle tasse. Con 20mila euro di reddito e due figli a carico, l’Irpef chiede al dipendente 16,8 euro, con un’aliquota effettiva dello 0,1%, mentre pretende 1.421 euro dal pensionato e 1.786 euro dall’autonomo. Cioè, appunto, 106 volte in più.
Correggi di qua e forfettizza di là, l’idea della “curva” Irpef, che dovrebbe garantire la progressività dell’imposta prevista in Costituzione, rimane ormai confinata nei capitoli teorici dei manuali di scienza delle finanze. Nella pratica quotidiana invece il fisco sui redditi è una lotteria, un «suk» per dirla con l’ex viceministro all’Economia Enrico Zanetti, in cui è impossibile ricostruire una razionalità nei numeri che escono dal bussolotto dell’Irpef. Parte da qui il dibattito sulla riforma che si sta per aprire al Mef. Dibattito che per esempio porta Italia Viva a chiedere con Luigi Marattin di «ripartire da zero» cancellando quasi integralmente il sistema attuale di aliquote, detrazioni e regimi speciali per semplificare il sistema, mentre nel Pd si guarda alla riduzione delle aliquote e nell’M5S si punta a un sistema a tre scaglioni con coefficiente famigliare.
I numeri, si diceva. Quelli citati all’inizio riguardano il caso di un contribuente con coniuge e due figli a carico. E mostrano un fenomeno particolare: le bizzarrie dell’aliquota effettiva, cioè la quota del reddito lordo che Stato ed enti locali chiedono perfunzionare, riguardano tutti i profili. Ma crescono con il numero di famigliari a carico.
Per capirlo basta guardare il grafico in pagina, che tiene conto anche delle addizionali e degli effetti del progetto governativo sul cuneo fiscale. Prendiamo il caso di un reddito da 25mila euro. Al contribuente senza famigliari a carico, il fisco chiede il 15,3% se è un lavoratore dipendente, quasi pareggiando il 15% imposto dalla cosiddetta Flat Tax degli autonomi. Ma se il reddito è da pensione, la richiesta effettiva volta al 20,7%. Basta un coniuge a carico per allargare queste forbici, passando dal 12,6% del dipendente al 17,9% del pensionato (l’autonomo resta fedele alla tassa piatta del 15%), ma se si aggiungono due figli le differenze fra le tipologie di reddito diventano una voragine: 6,7% di aliquota effettiva per il dipendente, e 12,1% per il pensionato. In questo caso tramonta anche il 15% degli autonomi: perché l’Irpef tradizionale, con le sue detrazioni, porta la richiesta al 13,3%. E nel confronto non va dimenticato il peso dei contributi, esclusi da questi calcoli ma assai presenti nella realtà quotidiana, che sono interamente a carico del professionista o dell’artigiano. Quello che emerge è una sorta di scambio tacito con i dipendenti, che restano i protagonisti veri del gettito: prelievo alla fonte in cambio di aliquote reali più leggere fino a un certo livello di reddito. Scambio discutibile, e soprattutto non previsto da una strategia dichiarata.
Questo balletto di aliquote reali, che finiscono per non essere nemmeno lontane parenti di quelle legali scritte nel Testo unico delle imposte sui redditi, sono un effetto collaterale del maquillage infinito a cui è sottoposta da anni l’imposta sui redditi delle persone fisiche. Perché ovviamente agli occhi del fisco i figli sono tutti uguali, e producono le stesse detrazioni per dipendenti e autonomi. Ma sul conto finale incidono le mille variabili che rendono quegli sconti più o meno pesanti a seconda delle situazioni.
Si crea così una sorta di quoziente famigliare al contrario, che in proporzione penalizza pensionati e autonomi al crescere dei famigliari a carico. «Per correggere questo fenomeno – ragiona Maurizio Leo, professionista e ordinario di diritto tributario alla Scuola nazionale dell’amministrazione – sarebbe utile un meccanismo che moduli le detrazioni per carichi famigliari in base alla tipologia di reddito, per arrivare a una sorta di sconto personalizzato in grado di evitare le sperequazioni». La prova del nove arriva dal fatto che quando il reddito cresce, il fisco sui redditi diventa esoso ma equanime. E le differenze scompaiono insieme all’effetto delle detrazioni.
Ma basta andare un po’ più a fondo per scoprire altre bizzarrie nel caleidoscopio dell’Irpef. Secondo i calcoli dell’Ufficio parlamentare di bilancio, per esempio, lo scalone creato fra gli autonomi dal forfait produce una «trappola» che fa perdere 5.900 euro di reddito disponibile a chi si arrischiasse a dichiarare un solo euro in più rispetto alla soglia dei 65mila euro.
Un altro paradosso è quello delle famiglie a reddito misto, che hanno diritto agli assegni famigliari solo se dal lavoro dipendente arriva almeno il 70% delle entrate. Nei casi vicini a questo confine, basta una piccola variazione nella composizione dei redditi, per esempio per qualche fattura in più realizzata dal coniuge lavoratore autonomo, per perdere il diritto all’assegno: anche qui, l’aliquota marginale su quella fattura supererebbe di parecchio il 100 per cento.