NO A MORALISMI ANTI PROFITTO, LA FINANZA SERVE AL TERZO SETTORE
«Esistono, anche nel Terzo Settore, l’ego e la vanità. Il potere e le cooptazioni. I vecchi capi carismatici che non sanno quando è il tempo di cedere il passo. Le governance che non funzionano. Il denaro è ancora un tabù: nelle fonti di finanziamento e nei livelli retributivi, così bassi da allontanare i talenti. Misuriamoci con questi difetti. Così valorizzeremo le qualità».
Elena Casolari dice, in maniera gentile e senza toni impositivi, cose contrarian in un ambiente fintamente solare e popolare, in realtà ovattato e in non pochi casi segnato da una sorta di elitarismo moralistico. Elena, classe 1966, ha conosciuto più mondi: la finanza e, ora, il Terzo Settore. Sa bene che la realtà – ogni realtà – è un amalgama di buono e di cattivo, di umiltà e di vanità, di morbidezze e di durezze, di miseria e di nobiltà: «Il bene non è tutto da una parte. E il male non è tutto dall’altra. Riconoscere i problemi di un mondo come il nostro, che lavora per gli ultimi e che opera per costruire una società migliore e più giusta, è essenziale per migliorarlo».
Siamo alla Brisa, uno dei ristoranti classici della borghesia milanese che fa della finanza e delle professioni uno dei suoi tratti identitari, di proprietà di Piero Maranghi, il figlio del Vincenzo delfino di Enrico Cuccia in Mediobanca. Il ristorante è pieno. Ci sediamo in una posizione un poco sacrificata, nella rientranza a fianco dell’ingresso. Di antipasto lei sceglie acciughe del Cantabrico, con mugnoli selvatici, cedro, polvere di cappero e salsa al tuorlo. Io, invece, prendo del culatello di zibello del podere Cadassa.
Lo scorso 17 dicembre la Banca d’Italia ha dato l’autorizzazione a Opes Italia Spa, uno spin-off di Fondazione Opes-Lcef di cui lei è presidente esecutivo e amministratore delegato, per operare come Sicaf. Il fondo varrà 40 milioni di euro. È previsto entro la metà di febbraio il primo closing della raccolta fondi. Venti milioni saranno versati per il 60% dal Fondo Europeo degli Investimenti e per il 40% dalla Cassa Depositi e Prestiti. Gli altri venti milioni arriveranno da fondazioni ex bancarie, fondazioni di famiglia e family office. Hanno manifestato interesse a versare quote degli altri 20 milioni di euro la Fondazione Vismara, la Compagnia di San Paolo, la Fondazione Sviluppo e Crescita CRT e la Fondazione Social Venture Giordano Dell’Amore (Cariplo).
Casolari, che in questa atmosfera è tranquillamente a suo agio senza avere la sicurezza ostentata di molti altri commensali della Brisa, non è nata in una famiglia benestante. E, questo, quando si parla di bene e di male, di ricchezza e povertà, non è cosa da poco. Non ha, infatti, il distacco impositivo e il passo manageriale che possono esprimere gli esponenti dei ceti affluenti del Nord quando vengono fulminati sulla via di Damasco del “bene”: «Fino all’età di dieci anni ho vissuto a Ligonchio, un paese di 400 abitanti in provincia di Reggio
Emilia. Mia madre Maria Luisa ha sempre fatto la casalinga. Mio padre Umberto ha lavorato tutta la vita come vigile urbano. Le scuole erano lontane e, quando sull’Appennino nevicava, Ligonchio rimaneva isolata. In prima media io e mia sorella Valentina siamo andate in collegio a San Sepolcro, vicino ad Arezzo. I miei venivano a trovarmi una volta al mese. Io tornavo a casa tre volte all’anno».
Arriva il cameriere: «No, grazie, niente vino, nemmeno un rosso giovane», dice Elena che prosegue nel racconto standard di tanti ragazzi e di tante ragazze brillanti, di provincia e di origini non benestanti: università Bocconi, convitto e borse di studio. Per sei mesi, nel 1989, è alla International University of Japan di Urasa, dove si occupa di modelli organizzativi d’impresa. Dopo la laurea, torna in Giappone. È, per due anni, ricercatrice in organizzazione aziendale alla Hitotsubashi University di Tokyo: «Vivevo in diciotto metri quadrati. Fra il lavoro all’università e le lezioni per affinare il mio giapponese non staccavo mai. Nel 1994, ho iniziato a lavorare a Milano alla Nikko Securities. Seguivo l’apertura dei mercati emergenti. Cina, Hong Kong e India. I miei clienti erano i fondi italiani. Poi, nel 1998 sono passata alla Dresdner Bank, come managing director sulle vendite Asia. Era la bolla degli anni Novanta. A un certo punto, rifiutai un bonus da un milione di euro all’anno garantito per tre anni per andare in Morgan Stanley. Dal 2002 al 2004, passai in Hsbc».
Come piatto principale, lei sceglie una crema di porcini con orzo mantecato alla nocciola, robiola di Roccaverano e zucca all’agro: «Spesso a mezzogiorno non mangio. In ufficio siamo quasi tutte donne e lavoriamo molto, spesso tutto di filato». Io, invece, prendo del maialino da latte croccante, con marasciuoli, macco di fave e mostarda di mele.
Il punto di rottura nel suo rapporto emotivo e professionale con la finanza («il mio inflection point», dice ripetutamente) si verifica quando Elena va in India alla Icici bank (Industrial Credit and Investment Corporation of India), la più grande banca privata Indiana per asset e la seconda per capitalizzazione: «La sede era nell’area di Banra Kurla. Il grattacielo sorgeva in mezzo allo slum di Dharavi, dove allora vivevano, e dove ancora oggi vivono, 700mila persone. Nei viaggi di lavoro, era capitato spesso che prendessi un taxi e chiedessi di visitare i quartieri più poveri. Ma, quella volta, fu sconvolgente».
Il problema della transizione da un mondo all’altro è complesso: «Ancora oggi, mio figlio Edoardo mi chiede: “Mamma, perché sei passata dalla finanza a un posto dove quasi non ti pagano?”. Mio marito Giampaolo proviene da una famiglia benestante, io in finanza ho guadagnato bene, so che non è replicabile il modello anglosassone in cui gli stipendi sono oggettivamente alti, ma i salari medi e i compensi della dirigenza del Terzo Settore sono assurdamente bassi, basta pensare al meccanismo dei donatori che considerano un indicatore di efficienza la compressione, nei costi di struttura, degli stipendi, una sorta di perversa indicazione di bontà».
La transizione fra mondi diversi mostra – in retrospettiva, avendo frequentati l’uno e l’altro per molto anni – la differenza fra aspettative e realizzazioni: «Non ho mai lavorato nella finanza speculativa. Non mi sono mai occupata di derivati e di prodotti strutturati. Mi sono sempre dedicata all’economia reale, perché le mie scelte di investimento riguardavano imprese già quotate o che dovevano diventarlo. Ma, certo, quando ho iniziato a pensare di lasciarla, idealizzavo il Terzo Settore».
Il primo approdo è Acra: «Ho preso l’elenco delle associazioni riconosciute dal ministero degli Esteri e ho telefonato al primo nome. Mi hanno assunto come responsabile della finanza e dell’amministrazione. Dopo un anno sono diventata direttore generale e amministratore delegato. Occuparsi subito di numeri è stato molto utile: perché, a fronte di progetti bellissimi e di una grande carica e idealità umana, ho saggiato una struttura finanziaria inefficiente. Una inefficienza che, anche se non era il caso particolare di Acra, può assumere in generale nel settore alcuni tratti patologici per la dipendenza dai sussidi pubblici e per il rapporto malato con la politica. In Acra, insieme ai fondatori, abbiamo istituzionalizzato il Cda, introdotto i revisori e i sindaci e stilato i bilanci per competenza e non per cassa».
Il tema della governance, che nel Terzo Settore è complesso, fa il paio con quello della qualità degli interventi. «L’altro punto di rottura nella mia esperienza è nel 2011. Con fondi europei finanziamo la costruzione di pozzi nella regione di Mayo Danai, nel nord del Camerun, al confine con il Ciad. Nel villaggio principale, il giorno dell’inaugurazione, è tutta una grande festa. Gli anziani ci regalano i polli vivi per ringraziarci. A un certo punto vedo una serie di donne che camminano in fila con delle taniche. Chiedo che cosa stia succedendo. E mi spiegano che stanno andando a prendere l’acqua in un ruscello del fiume Mbere. Un pezzo delle pompe dei pozzi si è rotto e non si trova sul mercato locale. Ecco perché quelle donne sono in fila. Fino ad allora noi avevamo finanziato associazioni e organismi simili a noi. In quel momento ho capito che bisognava puntare sugli imprenditori. Imprenditori sociali, ma imprenditori. Occorre investire in imprese per avere sostenibilità di medio e lungo periodo e per dare efficacia all’azione».
Dal 2013 al 2017 Opes ha compiuto otto investimenti in Africa e in India. Nel 2017 si è fusa con Lcef, un trust inglese specializzato in basso impatto ambientale, assommando in tutto 17 investimenti e un valore di libro delle partecipazioni di 4,5 milioni di euro. «Abbiamo fatto una uscita parziale o totale da quattro società. I numeri sono piccoli. Come, rispetto alla finanza, sono piccoli i numeri della nuova Sicaf per gli investimenti nelle imprese sociali. L’importante è contaminare i metodi. Anche rompendo i tabù. Il dibattito ideologico che c’è in Italia sul fare o non fare profitto non esiste nel mondo anglosassone: gli utili vanno sempre ottenuti, semmai la questione è come reimpiegarli. E, questo dibattito, non esiste neppure in Africa. Il profitto è per definizione buono. Grazie al profitto puoi continuare a investire in nuovi progetti. In Uganda abbiamo il 18% di Afripads che, con una fabbrica con 150 addetti a Masaka, realizza assorbenti lavabili. La gestione del ciclo mestruale, con quelli tradizionali, costa a una donna ugandese 72 dollari all’anno. Là sono una enormità. Con il prodotto di Afripads il costo è ridotto a 2,5 dollari e mezzo. Se ti sembra poco...».
No – intanto che arrivano i caffè, decaffeinato macchiato caldo per lei e normale per me, e i commensali escono dalla Brisa, mentre fuori una ragazza africana vende un libro di poesie in italiano e in inglese – annuisco ad Elena Casolari, ora passata – senza conversioni retoriche – nel Terzo Settore: non mi sembra poco.
á@PaoloBricco
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