L’ INTERESSE NAZIONALE NON È NAZIONALISMO
La crisi libica ha generato molti effetti negativi. Ma uno è sicuramente positivo. Ha riportato la politica estera al centro del nostro dibattito pubblico. La politica estera consiste nella proiezione esterna di un interesse nazionale. Essa è tanto più efficace quanto più quell’interesse nazionale è condiviso. Ciò non sembra essere il caso dell’Italia.
In un editoriale del Corriere della Sera di giovedì scorso, Ernesto Galli della Loggia mette in questione il tradizionale orientamento europeista della nostra politica estera, per sostituirlo con un rapporto esclusivo con gli Stati Uniti (Usa). Come coloro che propongono di uscire dall’Eurozona, anche Galli della Loggia propone di uscire (per così dire) dalla Politica estera e di sicurezza comune (Pesc) dell’Unione europea (Ue), per via dell’egemonia esercitata al suo interno dai due maggiori Paesi europei. Secondo Galli della Loggia, infatti, l'Italia avrebbe dovuto capire da tempo che «il progressivo concentrarsi del potere dell’Unione europea nelle mani di Germania e Francia ci stava inevitabilmente sbarrando la strada verso i due teatri tradizionali della nostra politica estera», cioè i Balcani e l'Africa. L’Italia dovrebbe quindi sostituire l’alleanza europea con «un rapporto con gli Stati Uniti più stretto e concertato di quello attuale». Qui, l’interesse nazionale coincide con il rilancio del nazionalismo italiano, così da renderci competitivi con i nostri rivali continentali.
Unarivalità inevitabile, radicata nella storia e dettata dalla geografia. È davvero così? In realtà, ai nazionalisti sfugge che cosa sia l’Ue, di cui l’Italia fa parte da più di sessant’anni, così come il cambiamento in corso nella politica Usa. Mi spiego. Cominciamo dagli Usa. Questi ultimi sono, e debbono continuare ad essere, un riferimento indiscutibile della nostra democrazia. Tuttavia, ciò non deve portarci a sottovalutare le trasformazioni strutturali che sono intervenute nella loro politica estera con Donald Trump. America first non è solamente uno slogan elettorale, ma è una precisa strategia politica. È l’espressione di un nazionalismo che si dichiara incompatibile con le regole di alleanze internazionali istituzionalizzate. Come hanno scritto recentemente (con approvazione) Elbridge A. Colby e A. Wess Mitchell su Foreign Affairs, con Trump gli Usa hanno finalmente capito di essere entrati in una nuova epoca storica, quella della competizione tra Grandi Potenze (nel loro caso, con la Cina in particolare). In questa epoca contano i rapporti di forza tra quelle potenze (che possono rendere necessari conflitti militari improvvisi oppure guerre commerciali prolungate), non già il rispetto di convenzioni multilaterali. Trump agisce come Lord Palmerston (più volte primo ministro e ministro degli esteri britannico tra il 1830 e il 1865), secondo il quale «il Regno Unito non ha amici o nemici permanenti, ma solamente interessi permanenti». Per Trump, infatti, non vi sono alleati, ma solamente clienti. Come sta emergendo nell’Ukrainegate, oggetto dell’impeachment in corso a Washington D.C., Trump non ha avuto scrupoli a bloccare un ingente stanziamento di fondi, votato dal Congresso per sostenere la difesa dell’Ucraina dall’aggressione russa, fino a quando il presidente di quest’ultima, Volodymyr Zelensky, non si impegnava ad avviare un’indagine che avrebbe dovuto mettere in difficoltà un suo rivale politico interno (l’ex vicepresidente Joe Biden). Davvero si pensa che Trump avrebbe un atteggiamento diverso nei confronti dell’Italia, se agisse da sola?
Vediamo ora il versante dell’Ue. Il nazionalismo italiano fatica a concettualizzare la natura e le conseguenze del processo di integrazione europea. Per i nazionalisti, l’Ue è un’arena principalmente diplomatica, usata dalla Germania e dalla Francia per legittimare la loro egemonia sugli altri Paesi del continente. Ora che il Regno Unito sta uscendo dall’Ue, si ritiene che quell’egemonia non avrà più contrappesi. Con conseguenze negative sull’Italia, che perde un alleato per contrastare il potere delle due potenze continentali. Questa visione (diffusa anche tra le nostre tecnocrazie della politica estera) è giustificata da un paradigma delle relazioni internazionali definito come geo-politico. Per questo paradigma, l’Ue non è certamente il Congresso di Vienna del 1815, ma ci assomiglia molto. La realtà, però, è diversa. La Francia e la Germania hanno certamente i loro interessi da promuovere, ma il loro unilateralismo (quando si manifesta) è possibile per la debolezza del potere europeo, non già per la sua concentrazione nelle loro mani. Come ha mostrato Jolyon Howorth, la Pesc non ha un carattere sovranazionale per via delle resistenze di molti Paesi (tra cui il nostro) verso una sua maggiore integrazione. Ad esempio, la Francia ha proposto diverse iniziative per approfondire l’integrazione militare, ma l’Italia è stata spesso su posizioni difensive. Eppure, se si vuole vincolare la politica estera dei grandi Paesi, occorre costruire istituzioni sovranazionali (come la Banca centrale europea nella politica monetaria), non già perseguire strategie di free-riding. Perché il governo italiano non avanza una proposta di politica estera e militare sovranazionale, distinta da quella nazionale, che va preservata e razionalizzata?
In conclusione, è bene non confondere l’interesse nazionale con il nazionalismo. Anche il nostro, come tutti Paesi dell’Ue, ha precisi interessi nazionali (sul piano economico, militare, della sicurezza) da perseguire all’esterno. Tuttavia, quegli interessi non potranno essere soddisfatti da un’azione indipendentista (o peggio ancora opportunista). In un’epoca di grandi potenze, l’Italia, se agisse da sola, non otterrebbe neppure un seggiolino al tavolo dove si decidono le questioni che influenzano i nostri interessi. Così come per la politica fiscale, anche per la politica estera e di sicurezza, è nostro interesse nazionale accelerare il processo di formazione di un’unione politica, dotata della necessaria sovranità (limitatamente a quelle politiche). È intorno a una visione anti-nazionalista dell’interesse nazionale che si può costruire il consenso necessario per accelerare il progetto europeo e riequilibrare l’unilateralismo americano.