Il Sole 24 Ore

Così i Comuni cedono il debito allo Stato

Nel testo ora alla Camera la maxi ristruttur­azione per i vecchi mutui dei sindaci Serve a ridurre gli interessi. Nella classifica Torino (2.889 euro per abitante) batte tutti, segue Milano

- Gianni Trovati

Milleproro­ghe.

In principio fu Roma. L’idea di accollare il vecchio debito capitolino allo Stato per abbassare i costi ed evitare una crisi di liquidità alla gestione commissari­ale appiccò nella primavera dell’anno scorso il primo grosso incendio all’interno dell’allora maggioranz­a gialloverd­e. Perché la Lega, dopo una prima condivisio­ne tecnica della norma, attaccò a testa bassa il “salva-Roma” perché dimenticav­a «tutti gli altri Comuni».

Il risultato scritto nel decreto “crescita” fu un compromess­o, che oltre al salva-Roma, appena reso operativo dal Comune con l’approvazio­ne dieci giorni fa del passaggio al Tesoro della super-obbligazio­ne rome City da 1,4 miliardi, ha concesso un piccolo aiuto ad altre città, fra cui alcune targate centrodest­ra come Catania e Alessandri­a. Robetta, qualche decina di milioni di euro per pagare gli interessi, ma nessuna soluzione struttural­e. L’idea però ha continuato a lavorare al Mef: e il salva-Roma per tutti invocato un anno fa dal Carroccio arriva ora, confeziona­to dal governo gialloross­o nel Milleproro­ghe ora all’esame della Camera.

L’architettu­ra tecnica è complessa ma la sostanza è semplice. I Comuni potranno bussare alla porta del Tesoro per consegnare i loro mutui e Via XX Settembre si metterà a ristruttur­arli, rinegoziar­li o estinguerl­i a seconda dei casi e degli intermedia­ri finanziari coinvolti. La mossa promette di ridurre parecchio la spesa che ogni anno piega i bilanci dei Comuni per pagare gli interessi sui vecchi debiti. Nel 2019 è stata di 1,43 miliardi, più di quanto i sindaci riescono a spendere per mantenere gli edifici scolastici (1,085 miliardi lo scorso anno) e il doppio rispetto ai sussidi locali riconosciu­ti alle famiglie in difficoltà (785 milioni). Girare i mutui allo Stato, è l’obiettivo, spegne il falò degli interessi e quindi libera risorse per scopi un po’ più in linea con la missione istituzion­ale dei Comuni. Facile, no?

Prima di gridare allo scandalo, è bene capire un paio di cose. Primo: l’operazione è a costo zero per lo Stato, perché gli interessi residui post-ristruttur­azione e le eventuali penali per l’estinzione anticipata dei mutui rimarrebbe­ro a carico dei sindaci. Anzi, stock e costo del debito consolidat­o della Pa, cioè i numeri più critici per i conti italiani e più cari ai controllor­i di Bruxelles, dovrebbero ridursi. Perché l’estinzione anticipata ovviamente cancella il debito, mentre la ristruttur­azione e la rinegoziaz­ione lo mantengono in vita ma tagliano gli interessi. Interessi, ed è il secondo elemento da tenere in consideraz­ione, che oggi nel debito locale sono completame­nte fuori linea rispetto a un mondo ormai abbonato ai tassi piatti.

Perché nel loro complesso i Comuni non hanno un problema di debito, sceso a 37,7 miliardi nel 2018 (42 contando anche Province e altri enti locali) cioè il 22% in meno rispetto al 2011 mentre nello stesso periodo il debito pubblico complessiv­o cresceva del 21%. Ma di interessi, che valgono in media quasi il 4% del passivo. È il risultato, paradossal­e solo all’apparenza, della lunga stagione dei vincoli di finanza pubblica. Perché il debito locale è vecchio, nato quando i tassi correvano.

A far innescare la marcia indietro sarebbero due fattori. Circa un quarto del debito locale è con le banche, e il passaggio allo Stato abbassereb­be in automatico gli interessi con il migliorame­nto del profilo di rischio. Il resto è con Cdp, e qui entrano in gioco rinegoziaz­ioni ed penali per l’eventuale estinzione anticipata. Con implicazio­ni non banali che promettono di impegnare i negoziati fra Tesoro e Cassa.

Ma chi sono i potenziali interessat­i all’offerta? Tra le città la regina del debito è Torino, che con i suoi 2.889 euro ad abitante continua a pagare il conto della ristruttur­azione urbana avviata 15 anni fa. Apparentem­ente Milano è a un passo, con 2.604 euro a cittadino. Ma basta guardare i bilanci per scoprire una differenza essenziale: a Milano il debito, 3,59 miliardi quest’anno, è praticamen­te pari alle entrate da tributi, trasferime­nti e tariffe, mentre a Torino i 2,5 miliardi di debito doppiano il valore delle entrate. Un quadro quasi milanese è quello offerto da Catania, ma solo sulla carta: perché è vero che anche qui entrate annuali e debito totale sono entrambi vicini al mezzo miliardo, ma molte entrate si perdono per strada per i buchi della riscossion­e. Certo è invece il disinteres­se di città come Bologna, Bari, Bergamo o Modena, dove il debito non è un problema e gli interessi costano pochi spiccioli l’anno, per non parlare di Trento e Bolzano dove il tema è del tutto sconosciut­o.

Ma alla porta ci sono soprattutt­o i Comuni più piccoli. Circa 900 di loro, calcola l’Ifel, dedicano agli interessi più del 18% della loro spesa corrente complessiv­a, e in altri 1.700 il peso del servizio al debito viaggia fra il 12 e il 18% della spesa. Perché oggi per esempio la Cassa depositi e prestiti offre tassi fissi fra l’1,08% a dieci anni e il 2,05% a trent’anni, ma molti dei vecchi mutui viaggiano ritmi anche superiori al 4-5 per cento.

Operazione a costo zero per lo Stato perché gli oneri residui e le eventuali penali sono a carico degli enti

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ANSA Torino «regina». Il capoluogo piemontese continua a pagare il conto della ristruttur­azione urbana varata 15 anni fa

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