Shakespeare sul lettino
Rifici usa «Macbeth» come campo di forze, capace di attivare discipline diverse quali la psicanalisi, cui si sottopongono gli attori. E tutti sono all’altezza del duro compito
Uno dei principali problemi artistici dei prossimi anni sarà quello di mantenere in vita un repertorio essenziale di testi canonici, in un’epoca in cui il teatro europeo sta andando verso forme di creazione sempre più performative. La ricerca di nuovi linguaggi della scena contemporanea è spesso appassionante, ma ovviamente occorre trovare dei punti di equilibrio che consentano di affrontare le grandi opere del passato senza rinunciare alle modalità espressive di oggi.
Uno dei registi italiani più sensibili a questa esigenza è senza dubbio Carmelo Rifici. Non è ovviamente il solo a cercare un approccio diverso ai classici, ma lui ha trovato una sua strada molto personale. Non mira a rendere il testo più attuale, ma costruisce attorno ad esso un progetto intellettuale che lo proietti in una più ampia sfera di pensiero. Nell’Ifigenia, liberata intrecciava la tragedia euripidea con uno studio antropologico sulla violenza e i sacrifici umani. In Macbeth, le cose nascoste, che ha debuttato al LAC di Lugano, approda al dramma shakespeariano partendo dal lavoro con lo psicanalista Giuseppe Lombardi e la psicoterapeuta Luciana Vigato.
In un impegnativo percorso durato quasi due anni, Rifici con la sua coautrice Angela Dematté e la dramaturg Simona Gonella ha chiesto agli attori di sottoporsi a una serie di incontri con Lombardi e la Vigato. L’obiettivo era quello di ricavarne delle impressioni totalmente soggettive sulla vicenda e i personaggi del Macbeth, ma questi confronti hanno richiesto una spietata messa a nudo della loro intimità, portando allo scoperto sentimenti profondi, travagliati legami famigliari, zone oscure dell’inconscio, e sono dunque inesorabilmente diventati delle vere e proprie sedute di psicanalisi.
Rifici, di fatto, non rappresenta il Macbeth, ma una sorta di teorema dimostrativo su come ci si possa accostare al Macbeth andando oltre il
Macbeth, assumendolo come puro archetipo culturale. Individua nel testo alcune fasce tematiche - il rapporto col padre, la maternità, il lato d’ombra insito in ogni essere umano - poste in stretta relazione con le biografie degli attori. La prima parte è dedicata soprattutto a queste biografie, esposte nei video dei loro colloqui con Lombardi, o direttamente alla ribalta. Poi gli attori entrano a poco a poco nel testo. Ma anche in questa fase in cui le parole shakespeareiane sembrano prendere il sopravvento i due piani si confondono, suggeriscono ambigue sovrapposizioni.
La figura dello psicanalista che incombe da tre schermi issati sopra il palco è comunque centrale. Rifici lo ha trasformato in personaggio senza che personaggio sia, lo ha tenuto sull’incerto confine tra scienza e presenza vagamente sovrannaturale, vicina al mondo delle streghe. E la stessa operazione, per certi versi, l’ha fatta sul rapporto fra psicanalisi e azione teatrale, che sono due cose diverse, ma sono anche un tutt’uno, il testo non è un’applicazione della psicanalisi, la psicanalisi non è una spiegazione del testo, ma un riverbero del testo nella vita interiore di uomini e donne del nostro tempo.
A testimonianza di una continuità inscindibile, gli attori prendono posto a turno su due poltroncine disposte sulla superficie d’acqua che senza sosta scorre sul piano della scena, ideata da Paolo Di Benedetto, e da lì, praticamente da fermi, come se stessero ancora rispondendo alle domande dello psicanalista, introducono ed evocano i sanguinosi avvenimenti. Ai tre che via via incarnano Macbeth, scambiandosi anche i ruoli di Banquo e delle streghe, la costumista Margherita Baldoni fa indossare grotteschi calzoni corti da bambini, emblemi di un’incapacità di sottrarsi al potere delle tre mogli-madri, ma neri come nere sono le loro camicie, quasi un richiamo a uniformi da Balilla.
Gli incastri fra gli sviluppi della trama e i vissuti reali degli attori sono assai complessi, spesso difficili da decifrare. È quasi impossibile cogliere tutta la fitta rete di significati che il regista attribuisce a questa catena di uccisioni: certo i protagonisti non appaiono come una coppia diabolica, ma come creature in balia delle proprie pulsioni, spinte dal desiderio, senza freni morali.
Benché smontato e rimontato per frammenti e lacerti, o proprio in virtù di questo, il racconto riserva momenti di inaudita potenza, il Macbeth coperto di sangue che brandendo il pugnale con cui ha appena compiuto il regicidio-parricidio è scosso da un tremito convulso, in preda a una sorta di crisi epilettica, il Macbeth che di fronte al fantasma di Banquo si rotola a terra scalciando e ringhiando, il ragazzo dipinto d’oro appeso nudo per i piedi come un animale sacrificale.
Ciò che sempre sosterrò a spada tratta, nel lavoro di Rifici, non è però l’efficacia o meno della singola proposta, della singola invenzione: è quest’uso del testo come campo di forze capace di attivare discipline diverse. È una concezione dello spettacolo come esito di un tragitto in cui la preparazione è anche più importante del risultato finale. È la messa a fuoco di un metodo in cui l’adesione ai personaggi è sostituita dall’impudica verità degli attori.
E loro, gli attori, reggono tutti con coraggio il faticoso impegno: lo strepitoso Christian La Rosa è il Macbeth più febbrile e tormentato, Angelo Di Genio il Macbeth più fragile, sovreccitato, travolto dalle sue paure, Tindaro Granata un inquietante depositario di magie contadine, che mette i brividi con la feroce dissertazione sull’uccisione del maiale. Alessandro Bandini sostiene la doppia parte dei figli di Banquo e Mcduff, e chiude lo spettacolo con l’elaborato monologo di Ecate. Le tre Lady sono Maria Pilar Perez Aspa, cui tocca l’onere di svelare per prima i propri stati d’animo alla platea, Elena Rivoltini e una sorprendente Leda Kreider, giovane ma già dotata di una piena padronanza dei propri mezzi.
MACBETH, LE COSE NASCOSTE Progetto e regia di Carmelo Rifici, in tournée dal 5 marzo