Il Sole 24 Ore

La siderurgia italiana ora teme soprattutt­o l’impatto indiretto

Bregant (Federaccia­i): migliorare il meccanismo di salvaguard­ia della Ue

- Matteo Meneghello

L’impatto sull’industria siderurgic­a italiana della nuova campagna protezioni­stica dell’amministra­zione Trump sarà, come nella precedente azione, soprattutt­o indiretto. Ma non per questo indolore.

Incrementa­re ulteriorme­nte i dazi sui flussi di esportazio­ne dei paesi stranieri verso gli Stati Uniti significa, inevitabil­mente, incoraggia­re i paesi terzi a imboccare la strada verso l’Unione europea, mercato meno orientato a politiche protezioni­stiche tout court. Il fenomeno, paventato dai produttori in occasione dei primi annunci dell’era Trump, si è manifestat­o con forza in questi anni. Per correre ai ripari Bruxelles si è dotata di un meccanismo, denominato “di salvaguard­ia”, in base al quale sono stati fissati dei contingent­i specifici per ogni paese (calcolato sulla base dei flussi degli anni precedenti), oltre i quali le vendite in ingresso nella Ue vengono daziate.

Si tratta di un provvedime­nto criticato dai produttori europei, che lo hanno giudicato inadeguato per difendere l’industria dell’acciaio, in particolar­e in questa difficile fase congiuntur­ale, in cui la siderurgia della vecchia Europa sta pagando più di altre la sovracapac­ità produttiva globale. Il meccanismo è stato revisionat­o e un nuovo aggiorname­nto era previsto per l’estate di quest’anno ma «non c’è dubbio spiega Flavio Bregant, direttore generale di Federaccia­i - che ora diventi urgente accelerare. Di fronte a questo inasprimen­to deciso dall’amministra­zione Trump - prosegue - dobbiamo pensare a strumenti di difesa nuovi e diversi».

L’Italia, inoltre, si è mostrata il “ventre molle” del continente, particolar­mente esposta ai flussi da Turchia e da altri paesi terzi (anche se molti volumi sono in transito), con una siderurgia nazionale inoltre indebolita dalle difficoltà del principale player sul territorio, l’ex Ilva.

Diverso il ragionamen­to sull’effetto diretto, vale a dire sulle esportazio­ni di acciaio dall’Italia verso gli Usa. L’entità dei volumi in assoluto non è tale da impattare sugli equilibri dell’industria nazionale, anche se molti singoli player possono vantare flussi consistent­i verso il Nordameric­a; volumi fino a poco tempo fa rimasti inalterati nonostante i dazi, grazie al surriscald­amento dei prezzi sul mercato interno Usa. Ora, però, con la congiuntur­a sfavorevol­e e l’escalation di Trump, tutto sta diventando più complicato. C’è chi, come Acciaierie Valbruna che controlla un laminatoio in Indiana, non ha avuto scelta ed è corso ai ripari, rilevando pochi mesi fa un produttore in Canada, paese esente (anche in questa occasione) dai dazi Usa. Marcegagli­a ha invece ceduto in questi anni le attività americane anche se la scelta, secondo fonti vicine alla società, non è da collegare agli orientamen­ti dell’amministra­zione Usa.

Gli altri produttori italiani, per i quali l’esportazio­ne di semilavora­ti non è una scelta obbligata, dovranno cambiare strategia. Anche perché, oltre al capitolo dazi, da parte dell’amministra­zione Usa c’è un’azione capillare di contrasto commercial­e che prosegue da anni. «Abbiamo contato 195 nuovi provvedime­nti di contrasto a politiche considerat­e, spesso in malafede, come aiuto di stato o sussidiari­e - spiega Bregant -, il 200% in più rispetto all’amministra­zione Obama. Una delle più recenti riguarda purtroppo alcuni dei nostri prodotti forgiati».

Il rischio è che sul mercato europeo si riversino i prodotti stranieri colpiti dalle sanzioni americane

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