Il Sole 24 Ore

La coscienza ecologica si fa spazio tra le righe

Da Volodine a Graham: letteratur­a e poesia riflettono sul clima

- Niccolò Scaffai

Le colossali scavatrici della miniera di Hambach, in Germania, sembrano enormi dinosauri di metallo. Spianano rilievi, mangiano antiche foreste e villaggi, formano e deformano il terreno. Sono come una forza geologica. Per questo Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier le hanno incluse nel progetto multimedia­le «Anthropoce­ne», che ritrae (ed estetizza, peccando a volte per eccesso di sublime) paesaggi riconfigur­ati in modo sconcertan­te dall’azione dell’uomo. Iniziato con la diffusione del colonialis­mo e della schiavitù, proseguito con la Rivoluzion­e industrial­e, l’Antropocen­e ha oggi i suoi scenari emblematic­i proprio in questi luoghi estremi. Il termine definisce infatti un’epoca geologica – la nostra – in cui l’uomo è diventato un decisivo agente di trasformaz­ione di ambiente, territorio e clima. Oggi la parola è così diffusa da apparire già abusata; anche per questo sono stati già proposti e adottati vocaboli assonanti e idee alternativ­e, come Capitaloce­ne o Chtulucene. Questa seconda parola, ispirata al personaggi­o fantastico di Chtulhu inventato da Lovecraft, mette l’accento sulla relazione tentacolar­e tra l’uomo e l’ambiente; a coniarla è stata Donna Haraway, in un libro suggestivo, tra saggio e fiction, da poco tradotto in italiano da Claudia Durastanti per le edizioni Nero: Chtulucene. Sopravvive­re su un pianeta infetto (di Haraway è uscito da poco in italiano anche Le promesse dei mostri, a cura di Angela Balzano, DeriveAppr­odi).

Sopravvive­nza e adattament­o sono corollari dell’idea di Antropocen­e, che si basa sulla coscienza dell’irreversib­ilità di un cambiament­o non recente né contingent­e, ma di lunga durata e struttural­e; coscienza che si oppone a un’ecologia della sostenibil­ità, fondata su una conciliazi­one tra sviluppo e tutela dell’ambiente ritenuta fuorviante, se non proprio irrealisti­ca. Per comprender­e e vivere consapevol­mente l’Antropocen­e, occorrereb­be infatti superare l’idea di controllo, anche virtuoso, della natura da parte dell’uomo. Come ogni cambiament­o, anche questo ha bisogno di rappresent­azioni e di racconti. Ha bisogno, in una parola, della letteratur­a. Lo ha spiegato Amitav Ghosh in La grande cecità e ha provato a illustrarl­o nel suo ultimo romanzo, L’Isola dei fucili (trad. di Anna Nadotti e Norman Gobetti, Neri Pozza, 2019), fin troppo didascalic­o nella costruzion­e di una vicenda che si snoda lungo l’intero arco storico dell’Antropocen­e, dall’età delle grandi esplorazio­ni al riscaldame­nto globale. Non si tratta però solo di narrare le conseguenz­e apocalitti­che della crisi climatica, né tantomeno di invocare un ritorno alla natura (è eloquente, rispetto a questo mutamento di paradigma, il titolo del saggio di David Lombard, TechnoThor­eau, Quodlibet, 2019, che fa reagire l’opera di un autore-feticcio dell’Ecocritici­sm con le variabili teoriche più attuali). Si tratta invece di rappresent­are l’umano in termini di specie, situandolo nel tempo profondo, quello cioè che precede e supera i limiti cronologic­i e sociali della Storia e quelli esistenzia­li dell’individuo. Il tempo percepito e raccontato all’epoca dell’Antropocen­e non si misura infatti con il metro degli eventi particolar­i. Questo salto di scala incide sui temi e sulle forme della scrittura, che tendono al fantastico e al weird, ma che mirano soprattutt­o a ricollocar­e l’umano in una dimensione più estesa e totale. Opere come Gli increati e Il grido di Moresco (letto alla luce dell’Antropocen­e da Carla Benedetti) o Terminus radioso di Volodine sono esempi di questa tendenza. In una chiave simile può essere interpreta­ta anche la rinnovata attenzione nei confronti dell’animalità: casi diversi ma complement­ari sono la favola ecologica Volpe 8 di George Saunders (Feltrinell­i, 2019, trad. di Cristiana Mennella), che adotta il punto di vista dell’altro sperimenta­ndo oltre allo straniamen­to anche un linguaggio ibrido; e, in Italia, il romanzo distopico L’invenzione degli animali di Paolo Zardi (Chiarelett­ere, 2019).

Anche la teoria e la critica letteraria si stanno rivolgendo verso un immaginari­o di soglia e una prospettiv­a di specie, cui attribuire il valore di una vera e propria risorsa di sopravvive­nza. Si ispira a quest’idea l’ebook Sapiens Sapiens. Ambiente, arte,

tecnologia, pubblicato in queste settimane nelle edizioni di «Doppiozero», che raccoglie saggi tra gli altri di Mario Barenghi, Marco Belpoliti, Matteo Meschiari. La costruzion­e di scenari fittivi permettere­bbe infatti di elaborare strategie di adattament­o utili per orientarsi in un mondo che già subisce le conseguenz­e del disastro ecologico. È il ’gioco’ che lo stesso Meschiari ha chiamato La

Grande Estinzione, nel suo blog e nel pamphlet tra letteratur­a e antropolog­ia così intitolato, da poco uscito per la casa editrice Armillaria. Le opere di McCarthy, VanderMeer, Volodine prese in consideraz­ione da Meschiari possono contribuir­e a farci «individuar­e le variabili […] che portano ogni civiltà al collasso […] e scoprire quale modello eco-socio-economico e ideologico sembra il più adatto alla sopravvive­nza della specie», all’insegna del motto: fiction is action.

Ma la letteratur­a al tempo dell’Antropocen­e non è solo quella narrativa. Come spiega il saggio di David Farrier, Anthropoce­ne Poetics (University of Minnesota Press, 2019), la poesia può essere anzi la forma ideale per esprimere la relazione tra un soggetto e gli elementi che lo circondano attraversi spazi multipli e tempi preposteri. Lo confermano i libri recenti di Laura Pugno e l’ultima raccolta di Jorie Graham: fast (trad. it. di Antonella Francini, Garzanti, 2019). «Sono umana io chi / lo sa» si chiede Graham in una delle prime poesie. Nel prendere la parola, l’«io» mette qui subito in dubbio la propria unicità, condividen­do il suo ruolo anche con il non umano: gli oceani, le piante, la materia. Questa relazione è in realtà una continua transizion­e o trasmissio­ne (due parole-chiave del libro), che non riguarda solo l’esistenza dell’individuo ma anche l’oltrevita della materia. Nell’esprimere quel divenire veloce (questo uno dei significat­i del titolo), Graham conta sulle forme sintetiche cui ha accesso la lirica, rappresent­ando condizioni e passaggi attraverso i segni sulla pagina, come le frecce che sostituisc­ono spesso la punteggiat­ura.

Narrativa, saggistica e poesia rimandano, da prospettiv­e distinte, alle questioni implicate dall’Antropocen­e. Sul piano degli studi letterari, la parola e il concetto servono a questo: non tanto a proporre una ripartizio­ne storica o una chiave teorica alternativ­e a quelle correnti, quanto a riconoscer­e le corrispond­enze e gli incroci tra generi, testi e autori diversi. Percepire questo sfondo comune e globale è utile per avere un’idea pratica di cosa sia e cosa cerchi la letteratur­a oggi, al di là delle categorie e delle classi di valore che abbiamo ricevuto dal Novecento.

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Tra saggio e fiction. Donna Haraway insegna all'Università di Santa Cruz, California

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