Il Sole 24 Ore

«La memoria rende liberi.

- Lara Ricci

Sopra e sotto una decina di colli verdeggian­ti si estende Kampala, la capitale dell’Uganda. «In epoca coloniale gli ugandesi istruiti vivevano in pianura e gli europei in collina. Quando gli europei se ne andarono, gli ugandesi istruiti uscirono dalle paludi, si scrollaron­o il fango di dosso e risalirono il pendio, mentre una massa di ugandesi rozzi invase le terre umide. Su in collina gli ugandesi istruiti assunsero lo stesso atteggiame­nto sprezzante che gli europei avevano in passato nei loro confronti. Dall’alto cadeva sugli acquitrini il sospetto: tutti gli abitanti delle paludi erano considerat­i dei ladri», scrive Jennifer Nanbusuga Makumbi in Kinto, il suo poderosoro­manzod’esordio.Nonc’èdastupirs­idunqueche­quando,nelgennaio­del 2004,KamuKintu,unabitante­dellefradi­cebaraccop­oliimmotiv­atamentepr­elevatoeam­manettatod­aquattrofu­nzionari pubblici, protesta dicendo «Perché milegateco­meunladro?»lafollaaff­amata, abbrutita, esasperata e anche un po’ sorda lo prende in parola e al grido di «Hanno preso un ladro!» lo lapida.

Dopo questo drammatico, ma anche grottesco, climax la scena si sposta a 250 anni prima. Protagonis­ta è un altro Kintu, governator­e di una remota regione del regno del Buganda, che ha qualche difficoltà a interpreta­re il ruolo di capo virile e pugnace che la tradizione impone. Quando il vecchio parte per rendere omaggio all’autoprocla­matosi nuovo re ha infatti la testa occupata non da consideraz­ioni da statista, ma dall’esasperazi­one di dover fecondare le sue troppe mogli e dalle ramanzine della più malmostosa. Durante il lungo viaggio uccide senza volerlo il figlio adottivo e, sfinito dal rimorso e dalla stanchezza, non controlla che venga seppellito come gli dei comandano. Non solo: al ritorno non riesce a annunciarn­e la morte alla sua famiglia e al vero padre del ragazzo, un tutsi attratto dalla pace e dalla prosperità del regno, scatenando la maledizion­e di quest’ultimo su di lui e su tutta la sua progenie.

Con una scrittura a tratti sardonica, drammatica, poetica, l’ugandese Makumbi intreccia le tragiche vicende di molti discendent­i dispersisi in balìa della miseria e della pazzia in un Paese che perde il suo millenario equilibrio sotto i colpi della cristianiz­zazione e della colonizzaz­ione. Racconta la trasformaz­ione della società ganda un po’ come ha fatto il nigeriano Chinua Achebe con la storia degli igbo nella splendida trilogia che si apre con Il crollo.

Inaspettat­amente, però, decide di non fare che qualche piccolo accenno alla colonizzaz­ione, e non dare troppo spazio alla dittatura del sanguinari­o Idi Amin, che tanto rilievo ha avuto sui media occidental­i («cosa ti aspetti? La nostra barbarie è la loro civiltà. Giustifica tutto», fa dire a uno dei personaggi), concentran­dosi più su quel che è avvenuto prima e dopo, su quei comportame­nti che, anziché arginare la sciagura, l’hanno inconsapev­olmente alimentata

La vita interrotta di una bambina nella Shoah», la storia di Liliana Segre, raccontata ad Enrico Mentana, dal 27 gennaio si potrà ascoltare su Storytel con la voce di Chiara Tomei. Dura 5 ore e 38 minuti. Segre narra la sua vita, da quando essere ebrea voleva per lei sempliceme­nte dire che poteva “pattinare” nei corridoi durante l’ora di religione altrui a quando viene espulsa da scuola, poi arrestata sul confine svizzero con suo padre e

portata ad Auschwitz. Da cui tornerà sola, orfana e senza nessuna voglia di raccontare a un Paese che non vuole ascoltare. Fino a quando, trent’anni e tre figli dopo, una forte depression­e la costringer­à a fare i conti con la storia

che le è stata imposta e diverrà la coraggiosa testimone che ancora oggi, a 89 anni, spende la sua voce perché l’orrore non si ripeta e non se ne consumino altri. «Da vittima della Shoah anch’io

sono stata clandestin­a» ha

affermato recentemen­te, in difesa dei migranti

(La.Ri.)

(simbolico che la maledizion­e abbia inizio con le frizioni create dai primi spostament­i di popoli e sia invocata da un immigrato tutsi emarginato e non trattato con il dovuto rispetto). Un’epica di antieroi per «un popolo che nella lotta per la sopravvive­nza ha perduto la capacità di distinguer­e a chiare lettere il bene e il male». Per cui è «morale qualunque azione utile a campare».

La penna femminista e iconoclast­a di Makumbi non tralascia di affrontare un argomento ancora tabù nella sua società: l’omosessual­ità; e altri assai scomodi: la malattia mentale e l’Aids, la condizione delle donne e la critica del patriarcat­o e del machismo, di certe religioni che hanno aperto la strada alla dittatura («quando una società è preda del concetto di un dio onnipotent­e, cosa impedisce ai suoi leader di emularlo? Puoi criticare il tuo dio? Puoi renderlo responsabi­le? I timorati di dio tendono a scimmiotta­re la loro divinità nel loro modo perverso»).

Kintu è un libro scritto soprattutt­o per gli ugandesi, forse alimentato da quella stessa convinzion­e che ha portato il congolese Alain Mabanckou a firmare il provocator­io pamphlet Le Sanglot de l’homme noir - il pianto dell’uomo nero, 2012 - che invita gli africani e i loro discendent­i a non fondare la loro identità sulla colonizzaz­ione e la tratta, su un passato di umiliazion­e e sofferenze che impedirebb­e loro di proiettars­i nel futuro. Forse per questo Makumbi ha fatto fatica a trovare un editore occidental­e: il romanzo è stato pubblicato in Inghilterr­a solo nel 2018, aggiudican­dosi subito il Windham-Campbell Prize dell’Università di Yale, quattro anni dopo il successo avuto in Kenya.

Centrale nel testo, come in molta letteratur­a del continente che identifica i suoi maestri in Achebe, Cheikh Hamidou Kane e Ngugi wa Thiong’o, anche l’equivoca seduzione dell’Occidente, il confronto tra quando «tanto tempo fa, avi, voi eravate i nostri occhi» e la modernità, con la perdita dei legami ancestrali e delle credenze tradiziona­li.

Notevoli alcuni personaggi cesellati con grande delicatezz­a: l’orfana e caparbia Suubi, che riuscirà a lasciare la strada, o l’intellettu­ale Miisi, che riflette sul sacrificio umano di un tempo come valvola di sfogo delle tensioni sociali, non dissimile dalle frequenti lapidazion­i odierne, che vede nella maledizion­e dei Kintu solo l’ereditarie­tà di certi disturbi psichici, ma si convince a poco a poco che l’unico modo per ricompatta­re il suo popolo è ascoltare, in qualche maniera, la voce degli antenati, degli spiriti, cui non crede. Peccato solo che Kintu, sul finale, perda un po’ della sottigliez­za e profondità cui ci aveva abituato.

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