Il racconto.
Éva Fahidi è tra gli oltre 400mila ebrei ungheresi deportati ad Auschwitz: come se l’intera città di Firenze fosse svuotata di colpo. È l’unica sopravvissuta della sua estesa famiglia. Lo racconta nel memoir tradotto in Italia da Della Porta: non ha mai più rivisto i genitori, la sorella più piccola e una rete di zii, cugini, parenti che arriva a una cinquantina di persone sterminate nel Lager.
La sua testimonianza, L’anima delle cose, rievoca l’esperienza di Auschwitz ma anche l’infanzia e l’adolescenza vissute in Ungheria, un’era felicissima il cui pensiero le ha dato la forza di resistere. Il libro, dunque, offre lo spaccato sociale e di vita di una famiglia della buona borghesia ebraica che precipita nell’abisso, a dispetto della propria incredulità. L’autrice ne ha scritto solo nel 2004, dopo che l’anno precedente era tornata nell’ex campo di concentramento e aveva concluso, di fronte al vuoto irreale di quello scenario, che non è possibile capire cosa sia realmente avvenuto. Ripercorre allora l’istituzione di leggi antiebraiche in Ungheria, il trasferimento nel ghetto, il viaggio spaventoso verso il Lager dove entrano il 1° luglio del ’44, l’annientamento fisico e psicologico (dopo la separazione dai suoi familiari decretata da Mengele: lei di qua, loro di là nelle camere a gas). Poi, con altre mille giovani ebree, lo spostamento ad Allendorf, un “sotto campo” di Buchenwald dove l’abbrutimento si compie nei lavori forzati: una routine massacrante che consisteva nel riempire e scaricare granate di 50 chili, sotto la minaccia di frustate e sevizie di fronte a una pausa o a un’esitazione.
La fine dell’incubo, il 27 marzo 1945, è annunciata dagli aerei degli alleati. Arriva l’ordine di lasciare il campo e mettersi in marcia. Éva, sfinita, riesce a sottrarsi con altri «scheletri viventi» alla fila, strisciando carponi fino a un ovile: lì le troveranno i soldati americani.
Colpiscono, pur in maniera diversa, le pagine del “dopo”. Al rientro a Debrecen (seconda città d’Ungheria), il 4 novembre 1945, Éva non riconosce la sua casa, il giardino è cancellato, i muri non sono più gli stessi. Quando la identifica, chi la occupa le dice che non è più sua e non c’è posto per lei. La vita ricomincia a Budapest, dove il regime comunista (nei confronti del quale il tono è molto critico) non le consente altro che di fare l’operaia edile. Anche le corrispondenze con le compagne di Allendorf - durante la prigionia erano state preziose la solidarietà e l’energia che ciascuna trasmetteva all’altra - ormai all’estero (in America, in Israele) richiedono molta prudenza. Dal 1989 le cose pian piano cambiano. L’anno successivo la città tedesca di Stadtallendorf invita lei e le altre deportate a una grande riunione il cui motto è “La memoria è il segreto della riconciliazione”. Il sindaco chiede loro ufficialmente scusa, le ospita una settimana, apre poi un Centro di documentazione e informazione sulla vita nel campo, «il nostro museo».
Tra le pagine più strazianti ci sono quelle dedicate a Gilike, l’amatissima sorella di otto anni più giovane: ha sempre sperato di vederla tornare. Quando ha potuto avviare una propria attività ha «esportato in Finlandia sedicimilaseicento ricami. Il nome del marchio era Gili e il logo una bambina con le trecce che danza». Éva ha fatto di più. A 90 anni, ha danzato lei stessa su un palcoscenico e da poco ha preso parte a un documentario che racconta la sua storia. È la vita, a prevalere. Un sentimento che si coglie leggendo L’anima delle cose, nel quale un editing non impeccabile è ampiamente compensato da una grande intensità.
L’anima delle cose
L’euforia dell’esistenza,
diretto da Réka Szabó