Herzog e il padre della Perestrojka
Meeting Gorbacëv. Dalle origini a Raissa, al crollo del Muro di Berlino
La Guerra Fredda è stata un banchetto per l’industria cinematografica: attorno alla cortina di ferro si sono intrecciate decine di trame dal Dottor Stranamore (1964) a Good Bye, Lenin! (2003), Le vite degli altri (2006), Il ponte delle spie (2015), La forma dell’acqua (2017), Cold war (2018), Suspiria (2018). Il ragazzo terribile della Neue Deutsche Welle, Werner Herzog, ha deciso di non ricamare in narrativa e di andare invece alla fonte, incontrando chi di fatto la Guerra Fredda l’ha spenta: Michail Gorbačëv, ultimo segretario del partito comunista dell’Unione Sovietica dall’85 al ’91, padre della Perestrojka, la politica di riforme che portò al crollo del Muro di Berlino nel 1989 e all’autofagocitazione dell’Urss tra 1990 e il 1991. Ne è nato un documentario, Meeting Gorbacë̌̌ v, nei cinema per I Wonder Pictures, firmato dallo stesso Herzog e da André Singer. Herzog nel film è anche l’intervistatore e, sotto questa veste, riesce difficile ritrovare il cineasta che, innamorato delle figure tragiche impersonate dal suo alter ego Klaus Kinski, produceva in proprio permessi falsi e trascinava la troupe in imprese disperate per girare film come Aguirre, furore di dio (1972) e Fitzcarraldo (1982).
In Meeting Gorbacë̌ v il regista tedesco è infatti partigiano, emotivo, nostalgico, deferente. Quando incontra lo statista russo cerca di farlo ridere: «Sono un tedesco e forse il primo tedesco che lei ha avuto modo di incontrare nella sua vita voleva ucciderla». Il regista soddisfa la sua curiosità nelle lunghe risposte di Gorbacë̌̌ v, inframezzando i primi piani con materiale di repertorio, filmini, fotografie. Vuole conoscere il percorso professionale, ma anche personale dell’ultimo leader Urss, quasi irriconoscibile, con la celebre voglia ormai scolorita sulla testa nuda. Si fa raccontare il paese natale, gli studi in giurisprudenza, l’amore per Raissa e il vuoto inconsolabile di averla persa. Vuole conoscere la sua ascesa politica, come successore di Konstantin Černenko e Andrej Gromyko, il disgelo con l’Occidente attraverso gli incontri con il primo ministro inglese Margaret Thatcher e con il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan; il pericolo della guerra nucleare e il tentativo di riformare il partito comunista; la Glasnost, le riforme per rendere trasparente la macchina burocratica politica dell’Urss. Herzog cerca di alternare la voce di Gorbacë̌̌ v con quella di altri politici, tra cui il leader polacco di Solidarność, Lech Wałęsa; Horst Teltsch, consigliere di Helmut Kohl; George Shultz, Segretario di Stato degli Stati Uniti d’America durante la presidenza di Reagan. Ma non si tratta di un contraddittorio; la tesi del documentario è chiara e scoperta: riabilitare la figura di un uomo, ritenuto responsabile dai suoi connazionali della dissoluzione di un sistema politico.
Un disastro che ha ridotto in povertà milioni di persone sotto la scure del capitalismo selvaggio (processo spiegato bene in Citizen K, 2019, di Alex Gibney su Mikhail Khodorkovsky) e la cui premonizione, secondo Herzog, si è manifestata con lo scoppio del reattore di Chernobyl nel 1986. Il regista vuole evidenziare il ruolo di capro espiatorio dell’ultimo segretario del Pcus e consegnargli personalmente il merito di aver contribuito a riunificare la sua Germania. Ma per quanto schierato e tifoso, il documentario ricostruisce un pezzo di Storia attraverso le parole di uno dei protagonisti e pertanto è prezioso; inoltre non perde mai quel senso di ironia e di surrealtà che Herzog mette nei suoi lavori. A un certo punto infatti il regista chiede a Gorbačëv quale scritta vorrebbe sulla tomba e quello risponde: «Ci abbiamo provato».