Muti a bordo di un’astronave
Scala. La Chicago Symphony Orchestra è una compagine impeccabile dal primo violino, Chen, alle percussioni. Il maestro, acclamato in sala, l’ha diretta con tocco moderno
Sentita alla Scala, dove da sempre sfilano ospiti tutte o quasi le orchestre blasonate del mondo, non lascia dubbi: la CSO, Chicago Symphony Orchestra, è oggi quella col motore più imponente e fastoso. Ma anche il più moderno. Grandiosità, perfezione e disciplina appaiono conseguiti in autonomia: basta vederli, i musicisti, schierati in palcoscenico e già intenti a scaldare con passione i rispettivi strumenti, mentre ancora il pubblico sta entrando in sala. E non c’è silenzio (anzi) tuttavia loro, dal primo all’ultimo leggio, sono concentrati, totalmente dentro la musica. Questo ancor prima dell’ingresso del primo violino, che è sempre lui, Robert Chen, solidità e classe in perfetto connubio. Impeccabile. Anche il momento dell’intonazione è funzionale al risultato. Essenziale, spiccio. Niente chiassosa esuberanza.
Li spiamo in ogni dettaglio, questi meravigliosi cento e passa. Sono in tournée in Europa da due settimane, al nono concerto di fila, eppure suonano freschi, traboccanti energia. Colpisce che non siamo mai dimostrativi. Mai ammiccanti, come si fa per ottenere consenso. Tra loro molti capelli bianchi, molte donne orientali. Molte anche nei comparti dove di solito non figurano, ad esempio alle percussioni, e Cynthia Yeh e Patricia Dash brillano fantastiche, sempre, dai clangori al dettaglio di un secondo.
Perché il segreto della CSO è questo: è un’astronave. Approda lì sul palcoscenico, e distribuisce i propri tesori, come un vaso di Pandora. Straordinaria nell’eccellenza strumentale. Ma è normale e più che sobria nello stile, nel porgersi al pubblico. In un’epoca di orchestre hippies con suonini da zanzara, loro sono l’opposto. Niente effervescenze, ma tecnica fina, enorme suono. Frutto della compattezza in sé, di ogni sezione, e dell’equilibrio e amalgama reciproco. Sono il motore più bello oggi sul mercato. E anche una lezione sulle potenzialità – in generale - dell’essere squadra. Vera.
Ma la rivelazione del concerto in Scala della CSO, mercoledì, ultima tappa della terna italiana, dopo Napoli San Carlo e Firenze Maggio, e prima del finale al LAC di Lugano, è stata l’ondata di modernità che questa orchestra ha riversato in teatro. Wagner, Hindemith, Prokofiev, sembravano musiche di un altro mondo, suonate così. Ascoltandole, tanto spaziate, ricche, maestose, si aveva l’impressione - soprattutto coi due del Novecento – di un repertorio disvelato. E qui, a pilotarli al presente, lasciando il pubblico in sala incantato (nemmeno un colpo di tosse, da non credersi) e magnetizzato, era solo Riccardo Muti. Con la Milano riunita a interrogarsi sottovoce se per caso, chissà, forse, tra metronomi e battute aggiunte la gran città della musica non avesse perso qualche tacca, ultimamente. E tutti a gridare «torna, torna», come a invitare il direttore a una festa, per un’opera o un’occasione, ben sapendo – chi non se lo ricorda? – che il Maestro è un costruttore, uno che anche ai Wiener mette le arcate.
Comunque, al di là delle divinazioni sul ritorno, Muti con la sua Chicago ha dimostrato che col tempo c’è chi diventa più moderno. Probabilmente per la forza della matrice classica. Per cui in ognuno dei tre brani in programma usciva sbalzato un elemento caratterizzante, identificativo. Ossia ogni pezzo era il racconto dell’autore, in quel momento. Wagner l’Olandese, al timone, nel mare in burrasca: il movimento del disegno acquatico minaccioso e onnipresente, travasato con virtuosismo in tutti i settori dell’orchestra. Immacolato il quadretto dei fiati: uno sguardo all’indietro nella vecchia Germania dei libri di fiabe: qui il direttore abbassava la bacchetta, lasciandoli soli.
Non c’era invece un attacco non suggerito (se necessario persino solo con un tocco dell’indice sinistro) per Hindemith e Prokofiev. La CSO si riaccorda, perché il motore deve essere perfetto (quando mai, dopo un’Ouverture?) e si entra nel recinto di puro contrappunto di “Mathis der Maler”. La Sinfonia è pura astrazione, forza immobile di fili orizzontali di suono, combinati con rigore e scientificità, intenzionalmente depurati da ogni espressione. Zero retorica, siamo nel 1933-34, gli anni del timbro di “artista degenerato”. Il primo movimento ha finissimi dettagli, su disegni robusti; il secondo commuove, nei silenzi del cuore, unisoni spatolati degli archi, in entrate successive; nel terzo la fascia del corale bachiano, su una Fuga fredda, è una luce ricorrente, ma che non vuole vincere. Non pacificare.
Duro Hindemith. Più di Prokofiev, che parimenti non ebbe vita semplice, ma che graffia mordendo, beffardo, irridendo le censure con le arcate diaboliche e scompigliate dell’Allegro agitato, nella Terza Sinfonia. Anche in momenti che potrebbero essere usati per l’applauso, Muti chiede alla CSO di restare negli argini. E le sciabolate veloci, le articolazioni virtuose coi salti nell’acuto, restano aristocratici gesti di scrittura. Classici. Cioè moderni. Gli stessi che si ammorbidiscono poi nel brillio dell’ “Amor ti vieta”, canto spaziato, sempre sospeso, mai battuto, tutto legato: luce d’incanto per il bis breve, nell’Intermezzo dalla
Fedora di Giordano. Che ferita perdersi i grandi.
OUVERTURE DA DER FLIEGENDE HOLLÄNDER Richard Wagner
SYMPHONIE MATHIS DER MALER Paul Hindemith
SINFONIA N.3 Sergej Prokofiev Chicago Symphony Orchestra, direttore Riccardo Muti; Teatro alla Scala