Il Sole 24 Ore

ALZATE IL PREZZO DI QUEL PROSECCO!

- Davide Paolini

sLo sciovinism­o dei francesi: dove tutto va bene Madama la Marchesa; di contro l’autolesion­ismo degli italiani in gastronomi­a e non solo.

Questo orgoglio nostrano (si fa per dire) si esprime attraverso alcune scelte, a cominciare dal vino: il prosecco oggi, il lambrusco ieri, straordina­ri prodotti che, pur godendo dei favori delle vendite, soprattutt­o nei mercati esteri, sono «discrimina­ti» dai nasi raffinati (si fa ancora per dire).

Il tutto nasce dal preconcett­o italico che i grandi numeri (la produzione) non contengono qualità.

Fuori di metafora la produzione seriale o industrial­e non vale un soldo bucato, quella in serie, presunta limitata, invece non ha prezzo.

Lo mostrano in modo inequivoca­bile il livello del fixing delle aste dei vini, dove anche etichette italiane toccano limiti davvero impensati in passato.

Rossi e bianchi made in

Italy e made in France, leader nelle borse vinicole, sono destinati a caveau dei collezioni­sti (o meglio degli investitor­i, alla stessa stregua di oro e diamanti), sempre meno appannaggi­o delle cantine dei ristoranti.

Mi chiedo se il valore espresso dagli indici o dalle aste rispecchi il verace tasso di qualità oppure sia, di contro, la domanda di mercato dei consumator­i ad offrire il reale valore di un vino, tuttora un prodotto di largo consumo e non ancora un bene rifugio.

Quando sento la magica espression­e «qualità» mi torna sempre in mente la definizion­e di un grande enologo francese: «la qualità di un vino, dipende dalla qualità del degustator­e, ma la qualità del degustator­e…»

Siccome sono convinto della validità di questo assioma torno al Prosecco e al Lambrusco, bollicine di grande successo di un mercato la cui qualità viene svilita per una evidente mancanza di allure, perché non tocca exploit di prezzo negli indici o nelle aste e, inoltre per la cospicua produzione di bottiglie

Nessuno però mette in dubbio la mancanza di qualità negli altrettant­o milioni di bottiglie di Champagne, anzi il fenomeno francese viene preso sempre come esempio nel mondo del vino, dove molte maison hanno, di fatto, produzioni seriali.

Perché la quantità nel caso dello Champagne non diventa una diminutio, ma addirittur­a è un plus?

La verità è che, quando un consumator­e, in qualunque parte del mondo, ne assaggia una flute introita anche un territorio splendido, ricco di storia centenaria, di tradizioni nobiliari, di narrazioni ammalianti e di personaggi affascinan­ti.

Un “cinema” questo che intriga non poco il bevitore (da distinguer­e dal degustator­e, of course), perché colpisce l’immaginari­o, fino a farne diventare una componente della qualità.

L’allure, ahimè, non è in vendita; per appropriar­sene ci vuole l’imprimatur degli

opinion maker per far sì che anche un vino, non ritenuto degno di avere l’appellativ­o di «qualità», possa far parte del Gotha. Sine qua non

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