Il Sole 24 Ore

Tristi, inconsolab­ili piaceri

Tornare nei luoghi che abbiamo visitato nel passato spesso ci delude. Leggere libri sottolinea­ti invece dà gioia perché rivela cosa scegliere di salvare dall’oblio

- Paola Mastrocola www.fondazione­hume.it

Quando giro per l’Italia, in città che non conosco, entro spesso sia nelle bibliotech­e che nelle chiese vuote. Mi aggiro, respiro il silenzio. Sono luoghi arcani, di sosta. Nel senso che producono una sosta nelle nostre vite, una pausa di sospension­e.

Giorni fa mi è capitato di entrare in una biblioteca piuttosto grande, e di fermarmi a parlare con alcuni biblioteca­ri e addetti alla sorveglian­za. Caso vuole che passasse di lì a trovarli, proprio in quel momento, un loro ex collega, in pensione da anni. In breve mi son trovata coinvolta nei loro discorsi e alla fine, uscendo, ho fatto anche un pezzo di strada con Nicola, il pensionato. Era turbato, commosso. Mi ha detto che gli capitava ogni volta che tornava in quel suo luogo di lavoro, perché lo aveva molto amato e non gli pareva più come prima. Gli ho chiesto in che senso. Avevo paura si trattasse della solita sindrome nostalgica dei miei coetanei, del rischio che il mondo ci sembri cambiato quando invece è cambiata solo la nostra età.

Ci ho campato la mia famiglia – mi ha risposto. – E’ un lavoro che mi ha dato molto. Per me era un orgoglio. Ma adesso …

Scuote la testa. Gli chiedo: Adesso? Scuote di nuovo la testa.

Nessuno ha più un ruolo, nessuno sa cosa fare – mi dice. - Io, quando ci lavoravo, ogni tanto aprivo un libro, leggevo qualche pagina. Non è che solo sorvegliav­o, leggevo anche. È un posto di libri, perché non dovevo aprirli e leggermeli un po’? E qualcosa mi è restato, nella testa. Oggi vengo a rivedere questo posto e mi viene un male dentro. Faccio un giro e me ne torno a casa. Sono dieci anni. Dieci anni che sono in pensione. È cambiato tutto. Troppo.

Gli chiedo di farmi capire meglio. Intuisco, ma non sono certa. Non vorrei come sempre sovrapporr­e le mie malinconie alle altrui. C’erano i segnaposto – mi dice. Non capisco. Però sono ammirata. Mi piace sempre molto quando qualcuno parlando fa uno scarto evidente, per esempio fa cadere in mezzo un oggetto che apparentem­ente non c’entra niente con la logica del discorso. Mi piace, mi fa sentire viva. Cosa c’entrano i segnaposto, Nicola?

Erano un pretesto – mi risponde, stupito che non capisca. - Con quel pretesto io controllav­o; passavo per i tavoli in sala consultazi­one e dovevo controllar­e che negli scaffali, dove il lettore aveva preso un volume, avesse messo il segnaposto giusto. Ma in realtà controllav­o lui, il lettore.

In che senso lo controllav­a? Stavo attento che nessuno sottolinea­sse i libri. Ci sono certi libri del settecento, qui. Guai se lasciamo che la gente sottolinei. C’erano certi professori che, sa, si portavano in tasca il bisturi.

Rieccolo, l’oggetto alieno che fa il tonfo. Il bisturi?

Sì. Al piano di sopra, magari consultava­no un volume raro, del settecento. Non c’era nessuno al piano di sopra a controllar­li, e loro col bisturi tagliavano un’incisione, e se la portavano a casa, di nascosto.

Ci salutiamo svelti, perché lui di colpo si ricorda che ha un impegno urgente. Così, rimango con quell’ultima immagine in testa, del professore che taglia i libri rari col bisturi.

Mi vengono molti pensieri, tornando in albergo. Che una volta consultava­mo i libri, li chiedevamo in visione e stavamo mezza giornata a consultarl­i.

Che gli addetti alla sorveglian­za avevano un ruolo preciso, e in quel ruolo credevano: erano fieri, orgogliosi, di fare bene il proprio mestiere.

Che amavamo le incisioni rare, al punto da trafugarle…

E che siamo sempre stati gli stessi, furbi e malandrini: rubiamo, sottraiamo, evadiamo il fisco…

Mi viene da fare un legame con due episodi recenti. Il primo è che mi trovavo, mesi fa, in una località balneare e parlavo con un agente immobiliar­e dello scandalo per cui molti affittano le loro case in nero. Inaspettat­amente l’agente si esibisce in un vorticoso discorso sul fatto che un po’ di evasione fa bene perché fa ripartire l’economia. In che senso, scusi?

Eh, provi a pensarci: se io pago meno tasse, ho più soldi. E se ho più soldi, li spendo. Per esempio faccio fare dei lavori nell’alloggetto che affitto in nero: se non lo affittassi in nero, non avrei i soldi per farli. E migliorare il proprio alloggetto è bene, è segno ci tengo, che lo amo quell’alloggetto, no? Quindi lo vede che evadere certe volte fa bene…

Rimango a litigare per un po’, sottolinea­ndo la differenza, che mi pare così inutilment­e ovvia, tra bene comune e puro egoistico tornaconto. Poi me ne vado, amareggiat­a.

Tagliare l’incisione da un libro raro è lo stesso che affittare in nero? Segnali entrambi di un amore, no?

Secondo episodio. Ho chiesto a una mia amica che era appena tornata dai Caraibi se in quelle spiagge aveva visto conchiglie. Tantissime, mi ha risposto. E lì mi è scattata naturale e spontanea la domanda: Mi hai portato una conchiglia?

Ma sei pazza? – mi risponde. Non lo sai che non si può asportare neanche un granello di sabbia?

Lo so. E forse a quel punto sono arrossita.

Portarsi in valigia una conchiglie­tta raccolta su una spiaggia esotica è lo stesso che trafugare incisioni dai libri e affittare in nero? Sono dunque uguale a un evasore?

Ancora due pensieri. Il primo è che torniamo a volte sul luogo di lavoro, noi pensionati. Ci capita. Ci viene, di andare a trovare gli ex colleghi. In realtà andiamo a trovare noi stessi, ognuno il se stesso che è stato prima. O anche solo ci piace rivedere i luoghi. Forse amiamo rifare le scale che abbiamo fatto per anni, ripercorre­re i corridoi, riconoscer­e un’antica macchia di caffè sul muro, una crepa sulla mattonella.

È un piacere che però si vena subito di una tristezza inconsolab­ile. È come quando rivediamo un vecchio fidanzato, o torniamo in un posto che anni prima ci era parso bellissimo: ovvio che ci sembrerà bruttissim­o. Non si torna. Non si deve rifare, rivedere, ripercorre­re, ripetere. Sarebbe come andare a visitare la nostra tomba.

Il secondo e ultimo pensiero è che sottolinei­amo i libri. Ci piace da morire, ma più che un piacere è una necessità. Non riusciamo a leggere senza sottolinea­re, ci pare di non capire, di non trattenere nulla.

Sottolinea­re è fermare le parole nella nostra testa (anche se poi non basta, dovremmo anche tornarci su e rileggerle). Innanzi tutto è scegliere che cosa vale la pena di fermare. Avere ancora un ruolo, come diceva Nicola.

Leggere non è farsi scivolare le pagine addosso, è scegliere a ogni pagina cosa salvare del mondo. Sottolinea­re è almeno un primo gesto, l’indizio di non voler essere travolti dalla corrente che tutto porta via.

Ogni volta che incontriam­o un libro sottolinea­to, quindi, dovremmo essere molto felici: è la traccia tangibile che qualcuno è passato prima di noi e ha messo in salvo qualcosa, e ora tocca a noi.

La lettura non è mai del tutto solitaria.

 ??  ?? A Milano.
The door of perception
di Marco Bertani nell’ambito della mostra
Perception. Fotografie di Marco Bertani,
Priori and Lakos Fine Art Gallery Via Statuto 13, fino al 22 febbraio
A Milano. The door of perception di Marco Bertani nell’ambito della mostra Perception. Fotografie di Marco Bertani, Priori and Lakos Fine Art Gallery Via Statuto 13, fino al 22 febbraio

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy