UN FOCOLAIO DA SPEGNERE PRIMA CHE SIA TARDI
Èsembrato a molti che i vocaboli a spruzzo nero, disegnati un paio di giorni fa sulla porta di Mondovì, segnassero un salto di qualità. Il messaggio intimidatorio delle due parole tedesche – «Juden hier» – è chiaro. Io che scrivo sono nazista. Non un banale antisemita italiano, portatore di un razzismo solo locale. Il mio modello è la Germania di Hitler, il mio punto di riferimento è lo sterminio, ed è per questo che scelgo, in una cittadina piemontese, la lingua per eccellenza dell’odio contro gli ebrei. In realtà, una persona di madre lingua non avrebbe usato, in questo contesto, l’espressione «Juden hier», «Ebrei qui», in una forma così sincopata, monca. Sono invece comuni strutture sintattiche complete di verbo, per esempio «Juden sind hier unerwünscht», «Qui non vogliamo ebrei» – questo sì disegnato sui cartelli nazisti. Lo sfregio di Mondovì, dipinto sulla porta del figlio di una partigiana, ha insomma tutta l’aria di un maldestro Made in Italy, frutto di un analfabetismo ideologico, che vuole spacciarsi per cultura.
Nonostante la sua finta patina globalizzata, l’antisemitismo del terzo millennio è becero, come del resto è sempre stato. Ma non per questo è meno pericoloso. Una delle caratteristiche fondamentali della svolta persecutoria del 1933, in Germania, fu l’esibizionismo. L’ostilità diffusa, che ormai da decenni andava crescendo in una parte della popolazione, divenne, dopo la vittoria hitleriana nelle elezioni del 5 marzo di quell’anno fatidico, un fenomeno conclamato, esibito in ogni possibile occasione pubblica, moltiplicato dalla propaganda. Fu allora un processo progressivo: prima i margini della società, poi uno spostamento verso il centro, infine i riflettori della scena pubblica. Quello che era all’inizio un odio di cui quasi vergognarsi, o comunque soggetto a distinguo e a censure collettive divenne, da un giorno a l’altro, il modello da imitare, la “verità” conclamata, imposta dallo Stato. Lo si può vedere come un tragitto dell’odio dalla periferia fino al centro delle relazioni interpersonali, o come un piano inclinato, lungo il quale scivola un’intera nazione. L’importante è averne chiara la curva di ascesa. E l’effetto imitativo che questa comporta.
Nel caso del nazismo nel 1933, e del fascismo nel 1938, il moltiplicatore decisivo fu l’accesso degli antisemiti all’apparato statale. L’istituzionalizzazione dell’odio ha sempre portato, nel corso della storia, alla violenza fisica e all’eliminazione del gruppo verso cui questo odio si rivolgeva. Siamo oggi a questo punto? Lo siamo in Italia, e altrove in Europa? La risposta è no, se guardiamo alla compagine statale. Nessuno Stato europeo ha dichiarati fini antisemitici. È innegabile però che l’odio antiebraico, e più in generale il razzismo siano in movimento. Che stiano spostandosi dai margini verso il centro della comunicazione. Come un fuoco, che alligna tra le sterpaglie, che cova sordo in attesa del vento. La nuova comunicazione sociale, così potente e invasiva, funziona in questo momento come vento, nuovo e violento, per pregiudizi vecchi, vecchissimi, che credevamo si fossimo spenti. Il nostro è un risveglio amaro, dopo decenni di educazione alla tolleranza e al rispetto della diversità. Ma bisogna svegliarsi subito, prima che tutto il bosco del nostro vivere comune vada in fiamme. Sarebbe un terribile errore sottovalutare il focolaio, e non voler vedere i segnali di dinamismo, di arroganza, di sfacciataggine che ci offrono anche le frasi sgrammaticate e boriose, come lo pseudo-tedesco di Mondovì.
Una cosa l’abbiamo capita, in questi ultimi mesi. L’Italia che credeva di essere diversa, quasi immune dal contagio razzista, mentiva a se stessa. La retorica consolatoria degli “italiani brava gente” non ci serve più. Appartiene a una stagione per sempre tramontata, a una calma di vento su cui non possiamo più fare affidamento. Il graffitaro di Mondovì ce lo dice a lettere nere. Più e meglio dei tedeschi di 80 anni fa, ecco cosa vogliono essere gli antisemiti di casa nostra. E come tali, come veri nazisti, dobbiamo trattarli, combatterli, sradicarli. Il razzismo non conosce gradi minori o maggiori di gravità. È sempre grave, virulento, così come una fiamma, se toccata, brucia sempre. L’unica differenza è nella maggiore o minore diffusione del focolaio. Ma in questo, nell’impedire che si crei una catena inarrestabile d’emulazione e di cooptazione sempre più forte, la responsabilità è di tutti noi. Dello Stato, delle forze dell’ordine, dei giornalisti, degli intellettuali, degli insegnanti, dei semplici cittadini. Questa nostra convivenza, e questa nostra democrazia sono le uniche che abbiano, e non devono bruciare.