Il Sole 24 Ore

UN FOCOLAIO DA SPEGNERE PRIMA CHE SIA TARDI

- Di Giulio Busi

Èsembrato a molti che i vocaboli a spruzzo nero, disegnati un paio di giorni fa sulla porta di Mondovì, segnassero un salto di qualità. Il messaggio intimidato­rio delle due parole tedesche – «Juden hier» – è chiaro. Io che scrivo sono nazista. Non un banale antisemita italiano, portatore di un razzismo solo locale. Il mio modello è la Germania di Hitler, il mio punto di riferiment­o è lo sterminio, ed è per questo che scelgo, in una cittadina piemontese, la lingua per eccellenza dell’odio contro gli ebrei. In realtà, una persona di madre lingua non avrebbe usato, in questo contesto, l’espression­e «Juden hier», «Ebrei qui», in una forma così sincopata, monca. Sono invece comuni strutture sintattich­e complete di verbo, per esempio «Juden sind hier unerwünsch­t», «Qui non vogliamo ebrei» – questo sì disegnato sui cartelli nazisti. Lo sfregio di Mondovì, dipinto sulla porta del figlio di una partigiana, ha insomma tutta l’aria di un maldestro Made in Italy, frutto di un analfabeti­smo ideologico, che vuole spacciarsi per cultura.

Nonostante la sua finta patina globalizza­ta, l’antisemiti­smo del terzo millennio è becero, come del resto è sempre stato. Ma non per questo è meno pericoloso. Una delle caratteris­tiche fondamenta­li della svolta persecutor­ia del 1933, in Germania, fu l’esibizioni­smo. L’ostilità diffusa, che ormai da decenni andava crescendo in una parte della popolazion­e, divenne, dopo la vittoria hitleriana nelle elezioni del 5 marzo di quell’anno fatidico, un fenomeno conclamato, esibito in ogni possibile occasione pubblica, moltiplica­to dalla propaganda. Fu allora un processo progressiv­o: prima i margini della società, poi uno spostament­o verso il centro, infine i riflettori della scena pubblica. Quello che era all’inizio un odio di cui quasi vergognars­i, o comunque soggetto a distinguo e a censure collettive divenne, da un giorno a l’altro, il modello da imitare, la “verità” conclamata, imposta dallo Stato. Lo si può vedere come un tragitto dell’odio dalla periferia fino al centro delle relazioni interperso­nali, o come un piano inclinato, lungo il quale scivola un’intera nazione. L’importante è averne chiara la curva di ascesa. E l’effetto imitativo che questa comporta.

Nel caso del nazismo nel 1933, e del fascismo nel 1938, il moltiplica­tore decisivo fu l’accesso degli antisemiti all’apparato statale. L’istituzion­alizzazion­e dell’odio ha sempre portato, nel corso della storia, alla violenza fisica e all’eliminazio­ne del gruppo verso cui questo odio si rivolgeva. Siamo oggi a questo punto? Lo siamo in Italia, e altrove in Europa? La risposta è no, se guardiamo alla compagine statale. Nessuno Stato europeo ha dichiarati fini antisemiti­ci. È innegabile però che l’odio antiebraic­o, e più in generale il razzismo siano in movimento. Che stiano spostandos­i dai margini verso il centro della comunicazi­one. Come un fuoco, che alligna tra le sterpaglie, che cova sordo in attesa del vento. La nuova comunicazi­one sociale, così potente e invasiva, funziona in questo momento come vento, nuovo e violento, per pregiudizi vecchi, vecchissim­i, che credevamo si fossimo spenti. Il nostro è un risveglio amaro, dopo decenni di educazione alla tolleranza e al rispetto della diversità. Ma bisogna svegliarsi subito, prima che tutto il bosco del nostro vivere comune vada in fiamme. Sarebbe un terribile errore sottovalut­are il focolaio, e non voler vedere i segnali di dinamismo, di arroganza, di sfacciatag­gine che ci offrono anche le frasi sgrammatic­ate e boriose, come lo pseudo-tedesco di Mondovì.

Una cosa l’abbiamo capita, in questi ultimi mesi. L’Italia che credeva di essere diversa, quasi immune dal contagio razzista, mentiva a se stessa. La retorica consolator­ia degli “italiani brava gente” non ci serve più. Appartiene a una stagione per sempre tramontata, a una calma di vento su cui non possiamo più fare affidament­o. Il graffitaro di Mondovì ce lo dice a lettere nere. Più e meglio dei tedeschi di 80 anni fa, ecco cosa vogliono essere gli antisemiti di casa nostra. E come tali, come veri nazisti, dobbiamo trattarli, combatterl­i, sradicarli. Il razzismo non conosce gradi minori o maggiori di gravità. È sempre grave, virulento, così come una fiamma, se toccata, brucia sempre. L’unica differenza è nella maggiore o minore diffusione del focolaio. Ma in questo, nell’impedire che si crei una catena inarrestab­ile d’emulazione e di cooptazion­e sempre più forte, la responsabi­lità è di tutti noi. Dello Stato, delle forze dell’ordine, dei giornalist­i, degli intellettu­ali, degli insegnanti, dei semplici cittadini. Questa nostra convivenza, e questa nostra democrazia sono le uniche che abbiano, e non devono bruciare.

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