Inquinamento idrico, risparmiare tempo non è un’esimente
Ininfluente l’assenza di linee guida per i modelli organizzativi
Anche se il reato è colposo, responsabile la società che non si è adeguata alla normativa sulla prevenzione dell’inquinamento idrico per velocizzare il ciclo produttivo. A questa conclusione approda la Cassazione con la sentenza n. 3157 della Terza sezione penale depositata ieri con la quale è stato respinto il ricorso presentato dalla difesa di una società sanzionata per non avere rispettato i limiti previsti per lo scarico da parte del decreto legislativo 152 del 2006.
La difesa aveva sostenuto l’impossibilità di applicazione del decreto 231 del 2001 al reato ambientale contestato; infatti, a detta dei legali, né il requisito dell’interesse né quello del vantaggio sarebbero logicamente conciliabili con la natura colposa del delitto in questione, tanto più quando la violazione era solo occasionale, visto che la società era sempre stata in regola con le autorizzazione comunali, e in assenza di linee guida specifiche come quelle previste per i reati in materia di sicurezza del lavoro, alle quali uniformare i modelli di organizzazione aziendale per evitare reati ambientali.
La Cassazione non è stata però di questo avviso. E ha innanzitutto negato alla radice l’incompatibilità tra interesse o vantaggio e reato colposo; in caso contrario, questa interpretazione condurrebbe a sostanziale abrogazione delle norme che, invece, da tempo hanno esteso la responsabilità amministrativa degli enti alla categoria dei reati colposi. Ripercorrendo poi, anche alla luce dei precedenti giurisprudenziali, le nozioni di interesse e vantaggio via via maturate, la sentenza ne aggiorna le conclusioni raggiunte (soprattutto sul fronte della progressiva valorizzazione del risparmio di risorse economiche, nella prospettiva patrimoniale dell’ente) alle fattispecie penali di tutela dell’ambiente.
In questa prospettiva, allora, tenuto conto che si tratta di reati di semplice condotta, l’interesse e il vantaggio vanno individuati sia nel risparmio economico per l’impresa, provocato dalla mancata adozione di impianti o dispositivi adatti a prevenire il superamento dei limiti predeterminati, sia nell’eliminazione dei tempi morti «cui la predisposizione e manutenzione di detti impianti avrebbe dovuto dare luogo, con economizzazione complessiva dell’attività produttiva».
Inoltre, fa notare la Cassazione, il superamento dei limiti era stato tutt’altro che occasionale, visto che era stato riscontrato almeno in 3 diverse date in occasione di altrettante misurazioni a campione; tanto da fare fondatamente ritenere ai giudici di merito che la mancata predisposizione di misure di prevenzione rientrasse in una precisa strategia aziendale; «sicché, neppure la mancanza di linee guida che, sulla scorta di quanto stabilito dalla normativa in materia di sicurezza sul lavoro, funzionino da riferimento per modelli di organizzazione aziendale, può ostare alla configurabilità dell’illecito amministrativo ravvisato dai giudici di merito».