Mercatone Uno, tutti assolti: creditori contro commissari
Non ci fu alcuna bancarotta anzi l’«impegno di risorse della famiglia Cenni»
La formula di assoluzione piena per i sei imputati del crac di Mercatone Uno (accusati di bancarotta fraudolenta) arrivata ieri dal Tribunale di Bologna, è una sentenza che riabilita nome e operato del patron di Mercatone Uno, Romano Cenni, e del su entourage, ma getta ombre pesanti sull’operato del Mise dal 2015 a oggi e sulle reali possibilità dei creditori di rientrare anche di piccolissima parte dei debiti accumulati. Perché la speranza era appesa a quei 300 milioni di euro di presunta distrazione operata dalle famiglie Cenni e Valentini, ipotesi che con rito abbreviato il Gup di Bologna, Domenico Truppa, ha dichiarato insussistente.
In questi cinque anni, però, i fornitori delle merci - i “finanziatori occulti” che hanno permesso all’ex colosso distributivo di Imola di restare aperto - non solo non hanno recuperato i crediti iniziali vantati verso le famiglie Cenni e Valentini (218 milioni di euro), ma hanno visto aggravarsi la loro esposizione di oltre 200 milioni, quasi un raddoppio, tra i 139 milioni di debiti accumulati nei loro confronti dalla prima gestione commissariale e gli oltre 60 milioni dovuti da Shernon Holding, la newco che nell’estate 2018 rilevò il grosso degli asset e che in soli nove mesi di gestione (è fallita nel maggio 2019) ha ammucchiato un altro centinaio di milioni di debiti, la gran parte, verso le Pmi della filiera di fornitura.
Bisognerà aspettare le motivazioni della sentenza, che deve essere depositata entro 90 giorni, per capire come si sia arrivati all’assoluzione con formula piena dei sei imputati (le tre figlie del fondatore Romano Cenni, il figlio del suo socio in Mercatone Luigi Valentini e i due ex amministratori, Ilaro Ghiselli e Giovanni Beccari) per cui il pm aveva invece chiesto pene tra due anni e otto mesi a quattro anni e quattro mesi. Ed è molto probabile che la Procura ricorrerà in appello. «Ringraziamo avvocati e consulenti tecnici che ci hanno affiancato nel ribattere ad anni di accuse infondate sulla famiglia e sull’operato di Romano Cenni – scrivono le figlie Elisabetta, Micaela e Susanna -. La sentenza del Tribunale di Bologna riabilita il nome e l’operato di nostro padre, che ha fondato e fatto crescere l’azienda a livello nazionale e non ha mai tenuto le condotte dolose imputategli (Cenni morì nel 2017, provato dall’onta del fallimento e dalla vicenda giudiziaria, ndr) ma purtroppo non cancella le perdite subite da clienti, fornitori e dipendenti. Confidiamo sul fatto che la giustizia individui i veri responsabili che hanno determinato la fine del Gruppo Mercatone Uno».
Dirimente, nella decisione con rito abbreviato del Tribunale di Bologna, è stata la perizia del professor Roberto Tasca di Milano, che ha affermato la piena legittimità delle operazioni immobiliari, al contrario ritenute dall’accusa distrattive. «Si trattava, in particolare, dello spin off immobiliare realizzato dal 2006, nel contesto di una vasta riorganizzazione del gruppo…Il Perito, peraltro, aveva correttamente ricostruito l’importante contributo, di oltre 50 milioni di euro a fondo perduto, corrisposto dalla famiglia Cenni al Gruppo Mercatone Uno quando, nel 2014, venne tentata la strada della ristrutturazione e rilancio…Né è passata sotto silenzio la circostanza che ai commissari straordinari, nel 2015, venne consegnata un’azienda con un disavanzo patrimoniale di 12 milioni, una cassa positiva per 32 milioni, in regola col pagamento di stipendi e fornitori», commentano gli avvocati della difesa. Chiara Tebano, Luca Sirotti e Olmo Artale. Ricordando che il procedimento penale nacque nel 2016 a seguito della relazione/denuncia presentata dagli allora commissari Tassinari, Sgaravato e Coen, «successivamente dimessisi a seguito dei gravi fatti che hanno interessato Shernon Holding, la società, con sede a Malta, da essi prescelta per il subentro nella gran parte delle attività del Gruppo Mercatone Uno, attualmente oggetto di indagine da parte della Procura di Milano».
Non brindano però né fornitori né clienti e neppure gli oltre 1.700 dipendenti in Cigs dell’ex Ikea italiana dell’arredocasa, in attesa di sapere dalla nuova triade commissariale (Cattaneo, Farchione e Gratteri, al timone del gruppo dallo scorso giugno) se tra le 14 manifestazioni di interesse arrivate in dicembre ci siano proposte concrete di salvataggio. Venendo a mancare il dolo, i fornitori ora rischiano di veder svanire pure la possibilità di accedere al fondo Serenella, che aiuta le Pmi vittime di mancati pagamenti a opera di altre imprese per cause dolose come l'insolvenza fraudolenta.