RIFORMA IRPEF, MOLTI OSTACOLI DA SUPERARE
Sull’Irpef, che doveva attuare i princìpi di universalità, personalità e progressività dell’imposizione, si sono fin dall’origine appuntate troppe aspettative. Anzitutto, con riguardo al concetto di reddito tassabile, che la teoria economica vorrebbe esteso all’intero incremento patrimoniale netto del contribuente, da qualsiasi fonte proveniente e anche se soltanto maturato.
Il concetto “legale” di reddito accolto dagli ordinamenti fiscali risponde, al contrario, a princìpi di semplicità applicativa, liquidità del presupposto con tassazione al realizzo, praticabilità della tassazione alla fonte. Tutto questo ha portato a escludere redditi e plusvalenze non ancora incassati, gli arricchimenti dovuti a liberalità, nonché la considerazione dei costi di produzione, in molti casi disconosciuti o ammessi solo in via forfettaria. Tra i redditi tassabili, l’ambito di quelli effettivamente assoggettati all’imposta progressiva ha conosciuto una inarrestabile erosione, a causa dei tanti regimi sostitutivi proporzionali e di vere e proprie esclusioni (si pensi all’intassabilità dei redditi agrari o delle plusvalenze immobiliari ultraquinquennali).
Ciò ha finito per infrangere i postulati su cui doveva fondarsi l’imposta, che riesce a violare contemporaneamente equità verticale e orizzontale, personalità del prelievo, esenzione del “minimo vitale”, tassazione al netto, rendendo il tributo l’opposto di ciò che dovrebbe essere, ovvero uno strumento di disuguaglianza.
Ora, se alcune deroghe o deviazioni dal modello teorico rispondono in fondo a reali esigenze (si pensi alla concorrenza fiscale internazionale sui capitali finanziari), altri appaiono concessioni di tipo “elettorale” a singole categorie, che riguardano non soltanto il trattamento privilegiato accordato a determinati redditi, ma altresì il variegato arcipelago delle tax expenditures, che vengono di volta in volta additate, in modo schizofrenico,
‘‘ GLI OBIETTIVI Per riscrivere le regole si deve passare da taglio degli sconti, perequazione per la famiglia, revisione della curva di progressività
come da sfoltire o, al contrario, da ampliare in nome del “contrasto di interessi” e della “lotta all’evasione”.
Tutto questo ha irrigidito la variopinta struttura dell’imposta, posto che esenzioni, detrazioni, agevolazioni, regimi sostitutivi, si rivelano alla prova dei fatti difficilmente revocabili. Un’agevolazione, insomma, rischia di essere “per sempre”. Le categorie beneficiate (dai titolari di redditi locativi agli agricoltori, dagli autonomi di piccola dimensione ai possessori di rendite finanziarie) rappresentano altrettanti gruppi di pressione che rendono politicamente controproducente, per ogni maggioranza di governo, mettere in discussione le esistenti sacche di privilegio, che anzi vengono continuamente estese. La politica dei bonus non conosce tregua e attesta una tendenza di lungo periodo che sarà difficile invertire.
Ne risulta un sistema farraginoso, distorsivo e profondamente ingiusto, ma paradossalmente difficilmente riformabile, per almeno due ragioni.
Anzitutto, per le incertezze sul percorso da intraprendere, dati i vincoli di finanza pubblica e gli snodi tecnico-politici insiti in ogni progetto di riforma. Ci si può limitare a un cenno alle due ipotesi estreme: se l’idea della “flat tax” è criticata per un deficit di progressività sui redditi elevati, dall’altro l’assorbimento nell’Irpef di tutti i regimi sostitutivi appare impraticabile, anche perché significherebbe aumentare la pressione fiscale su significative platee di contribuenti. Per riprogettare l’Irpef occorrerebbe insomma prima capire in quale direzione muoversi.
In secondo luogo, l’Irpef sopravvive a sé stessa per l’inerzia che i vincoli politico-elettorali determinano sugli assetti ordinamentali: una riforma dell’imposta con significativi vantaggi per tutti appare irrealizzabile in deficit in un Paese ad alto debito che non cresce e in cui parlare di riduzione delle spese è diventato un tabù, mentre un intervento a gettito invariato e a “somma zero” scontenterebbe alcune categorie e risulterebbe elettoralmente perdente. L’Irpef, ormai lo riconoscono tutti, è da riformare dalle fondamenta, ma la storia dell’imposta negli ultimi quarant’anni ci consegna una prognosi infausta.
Se tuttavia si volesse tentare, un disegno riformatore potrebbe basarsi sui seguenti princìpi direttivi: ridurre il più possibile le aree di esenzione o agevolazione, tassare tutti i redditi al netto dei costi di produzione superando l’ambiguo e spurio sistema delle “detrazioni” categoriali, introdurre una esenzione universale del “minimo vitale”, prevedere meccanismi di perequazione nella tassazione dei redditi della famiglia, ripensare i regimi sostitutivi e cedolari attraverso esenzioni alla base e richiesta di disapplicazione della ritenuta con possibilità di optare per la tassazione in dichiarazione se più favorevole, rivedere la curva di progressività per evitare bruschi salti nelle aliquote marginali effettive e ridurre la pressione sui redditi medio-bassi di lavoro.