Dalle Entrate stop al patent box per i concessionari di Stato
Per il Fisco non ci sarebbe reddito agevolabile su cui calcolare la detassazione
Doccia scozzese per i grandi concessionari di Stato. L’agenzia delle Entrate in questi giorni sta notificando, con posta elettronica certificata ,la bocciatura delle istanze di accesso al patent box. Ad aver ricevuto la missiva in questi ultimi giorni (e altre sono già date in arrivo) sono le grandi imprese che operano in concessione con lo Stato.
Una doccia fredda che arriva dopo oltre quattro anni di domande, scambi di dati, informazioni, chiarimenti e contraddittori vari iniziati nel 2015, sia on line che fisici nella sede di Roma dell’Ufficio accordi preventivi; solo ora l’Agenzia arriva a ufficializzare la sua posizione di chiusura all’accesso dei concessionari di Stato al patent box. Nessuna possibilità da parte del Fisco per questi grandi contribuenti di poter optare per la detassazione dei redditi che derivano dallo sfruttamento dei beni immateriali, ossia «software protetti da copyright, brevetti industriali, marchi d’impresa (poi esclusi per le opzioni esercitate dopo il 31 dicembre 2016), disegni e modelli, processi, formule e informazioni relativi a esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico giuridicamente tutelabili», come recita la guida delle Entrate.
Secondo una delle Pec recapitate in questi giorni, che Il Sole 24 Ore ha potuto visionare, il Fisco contesta ai concessionari proprio il valore della concessione. Secondo l’Ufficio accordi preventivi, la concessione ricopre tutto il valore dell’Ebit (earning before interest and tax) e quindi non ci sarebbe reddito agevolabile su cui calcolare la detassazione, anche parziale. Di conseguenza, per l’amministrazione, manca il collegamento diretto tra il reddito agevolabile e i costi di ricerca e sviluppo relativi ai beni immateriali.
Questa posizione, ad avviso dell’amministrazione finanziaria, troverebbe fondamento nel Codice degli appalti (articolo 167 del Dlgs 50/2016) secondo cui il valore di una concessione è costituito dal fatturato totale del concessionario generato per tutta la durata del contratto al netto dell’Iva e stimato dall’ente aggiudicatore come corrispettivo dei lavori e dei servizi e per le forniture accessorie.
Contro il diniego della Entrate, è certo, fioccheranno i ricorsi. Ne è consapevole la stessa amministrazione che chiude la lettera on line con le istruzioni per presentare ricorso entro 60 giorni dalla data di notifica e anche questo obbligatoriamente con posta certificata. La partita, dunque, non è ancora finita. Del resto il diniego, per come è motivato, esclude dall’agevolazione un’intera categoria di imprese, i grandi concessionari di Stato, appunto, laddove la legge istitutiva del patent box non sembrava affatto contemplare una tale esclusione e non si comprende a cosa siano serviti finora i contraddittori con l’Agenzia e le relative istruttorie se la tesi è quella che le imprese in questione, per definizione, non sono legittimate a fruirne. Perché non dirlo subito? E ciò a prescindere dal fatto che, nel merito del diniego, non mancano in realtà casi in cui i beni immateriali per cui è chiesta l’agevolazione nulla hanno a che fare con l’attività svolta sotto concessione.
La parola passa ora ai giudici tributari eventualmente anche quanto alla determinazione del reddito agevolabile. Spiace comunque constatare come, proprio nei giorni in cui il Governo e l’amministrazione parlano di semplificazione, sburocratizzazione e nuovo rapporto con il Fisco, i grandi contribuenti prendono atto che più di quattro anni possono anche non bastare per pianificare e poter beneficiare di un bonus fiscale, da tutti ritenuto il miglior viatico degli ultimi anni per stimolare la crescita e la redditività delle imprese. Con buona pace della certezza del diritto.