LA VISIONE CHE MANCA AI RAPPORTI ITALIA-AFRICA
L’Italia non è stata fra i Paesi più generosi negli aiuti verso l’Africa, benché il Continente sia stato e continui a essere prioritario per l’attività di cooperazione e per gli investimenti italiani. Fino al 1960 nella politica di aiuti prevalsero, più che ragioni umanitarie, motivazioni di prestigio nazionale in rapporto al protettorato in Somalia, una delle sue ex-colonie, su mandato dell’Onu. La legge per la cooperazione tecnica con i Paesi del Terzo Mondo, approvata nel 1962, divenne di effettiva cooperazione allo sviluppo soltanto nel 1979, aprendo al grande attivismo orientato soprattutto dagli interessi economici nazionali del decennio Ottanta, cui seguì un lungo periodo di ininterrotto declino. L’impegno italiano si rinnovò poi nell’ambito dell’Unione europea: nel 2012 con la “cooperazione delegata” e con la successiva riforma del 2014 che attivarono collaborazioni nei settori e nei Paesi nei quali era riconosciuto un ruolo importante all’Italia.
Malgrado le ambizioni di potenza regionale e la collocazione geografica di ponte fra Europa e Africa, l’Italia non è riuscita, tuttavia, a essere prima né per l’entità degli aiuti né per il valore dell’export. Secondo l’Ocse, nel 2010-2017 l’Italia si è collocata ultima fra i G7 per aiuti all’ Africa con 306 milioni di dollari rispetto ai 3.492 milioni della Gran Bretagna, i 2.850 milioni della Francia, i 2.678 milioni della Germania e i 1.609 milioni del Giappone. Nel 2018, il primato delle esportazioni europee è spettato alla Francia (26 miliardi di euro), seguita da Germania (23 miliardi), Spagna (19 miliardi) e Italia (18 miliardi).
Adesso che la cooperazione allo sviluppo ha perso molta della rilevanza di un tempo, l’Italia avrebbe molte carte da giocare puntando a divenire un hub degli investimenti verso l’Africa in settori quali energia, infrastrutture e trasporti. Infatti, nel 2018, si è collocata terza per investimenti esteri diretti nel Continente; ed è uno dei primi investitori nel comparto dell’energia e delle rinnovabili con Eni e Enel Greenpower. Inoltre, la filiera agroalimentare italiana di qualità, imperniata sull’impresa familiare, ben si concilia con l’agricoltura africana che rivendica la qualità delle sue produzioni e il ruolo delle comunità di villaggio.
Il punto è che in Africa, dopo la fine della Guerra fredda, le ambizioni di media potenza regionale dell’Italia si sono fondate su un substrato di interdipendenze politiche contradditorie, innanzitutto perché sviluppate all’interno della Ue e della stessa alleanza atlantica: da una parte, tali aspirazioni hanno richiesto il sostegno in ultima istanza di Washington; dall’altra, si sono sostanziate innanzitutto in
GLI INVESTIMENTI CRESCONO, MA ORA SERVE UN APPROCCIO SISTEMICO COME QUELLO DI TOKYO
contrasto con gli interessi economici e le mire egemoniche di Parigi. Ma è mancata una visione lungimirante e prospettica autonoma. Basti ricordare che la Conferenza Africa-Italia, che rappresenta il principale momento di dialogo strutturato tra l’Italia e gli Stati del continente africano, si è svolta per la prima volta nel 2016 sotto l’urto della crisi dei rifugiati e degli sbarchi dei clandestini. Così, nel dopo-Gheddafi le divergenze politiche fra Francia e Italia e la rivalità per il controllo dei giacimenti di petrolio hanno reso la ricerca di un accordo di pace in Libia quanto mai complessa, avvantaggiando di rimessa le potenze regionali emergenti, favorite anche dalla mancanza di una chiara azione politica di Washington.
D’altronde, la carenza organica di una visione politica strategica per l’Africa da parte di Roma emerge nitida dal raffronto con quanto ha programmato invece un Paese lontano dal Mare Nostrum come il Giappone. Con la fine della Guerra fredda, Tokyo si volse all’Africa giudicando lo sviluppo del Continente un imperativo nella ricerca di un futuro migliore. Il governo decise, nel 1993, di convocare la prima Tokyo International Conference on African Development, un forum multilaterale – giunto lo scorso agosto alla settima edizione – con la partecipazione dei Paesi e delle istituzioni africani, delle organizzazioni internazionali per lo sviluppo (come la Banca mondiale), delle organizzazioni del settore privato e della società civile. Dal 2016 al 2018 il Giappone ha investito circa 30 miliardi di dollari in partnership pubblico-private per il futuro dell’Africa, nello sviluppo della qualità delle infrastrutture e del sistema di cura, nonché per rafforzare la stabilità del Continente. Anche sulla base di questa esperienza è stata recentemente siglata la connectivity partnership euro-giapponese che coprirà diversi settori, dai trasporti alle industrie digitali, come parte di un più ampio sforzo di cooperazione multilaterale per fronteggiare tanto il ritiro americano dagli accordi internazionali quanto l’espansione della Cina.
L’Africa ha un ruolo cruciale negli equilibri geopolitici e geoeconomici mondiali, per la gestione del fenomeno migratorio e per la composizione regionale dei conflitti. L’Africa cambia, come cambia anche l’impegno delle aziende italiane che operano sul suo territorio nel perseguire obiettivi di sviluppo economicamente e socialmente sostenibile. Perché l’Africa, un continente giovane che non ha sperimentato le rivoluzioni industriali del passato, ha tutte le risorse materiali e umane per passare direttamente alla nuova economia circolare e digitale.