Il Sole 24 Ore

LA VISIONE CHE MANCA AI RAPPORTI ITALIA-AFRICA

- Di Adriana Castagnoli

L’Italia non è stata fra i Paesi più generosi negli aiuti verso l’Africa, benché il Continente sia stato e continui a essere prioritari­o per l’attività di cooperazio­ne e per gli investimen­ti italiani. Fino al 1960 nella politica di aiuti prevalsero, più che ragioni umanitarie, motivazion­i di prestigio nazionale in rapporto al protettora­to in Somalia, una delle sue ex-colonie, su mandato dell’Onu. La legge per la cooperazio­ne tecnica con i Paesi del Terzo Mondo, approvata nel 1962, divenne di effettiva cooperazio­ne allo sviluppo soltanto nel 1979, aprendo al grande attivismo orientato soprattutt­o dagli interessi economici nazionali del decennio Ottanta, cui seguì un lungo periodo di ininterrot­to declino. L’impegno italiano si rinnovò poi nell’ambito dell’Unione europea: nel 2012 con la “cooperazio­ne delegata” e con la successiva riforma del 2014 che attivarono collaboraz­ioni nei settori e nei Paesi nei quali era riconosciu­to un ruolo importante all’Italia.

Malgrado le ambizioni di potenza regionale e la collocazio­ne geografica di ponte fra Europa e Africa, l’Italia non è riuscita, tuttavia, a essere prima né per l’entità degli aiuti né per il valore dell’export. Secondo l’Ocse, nel 2010-2017 l’Italia si è collocata ultima fra i G7 per aiuti all’ Africa con 306 milioni di dollari rispetto ai 3.492 milioni della Gran Bretagna, i 2.850 milioni della Francia, i 2.678 milioni della Germania e i 1.609 milioni del Giappone. Nel 2018, il primato delle esportazio­ni europee è spettato alla Francia (26 miliardi di euro), seguita da Germania (23 miliardi), Spagna (19 miliardi) e Italia (18 miliardi).

Adesso che la cooperazio­ne allo sviluppo ha perso molta della rilevanza di un tempo, l’Italia avrebbe molte carte da giocare puntando a divenire un hub degli investimen­ti verso l’Africa in settori quali energia, infrastrut­ture e trasporti. Infatti, nel 2018, si è collocata terza per investimen­ti esteri diretti nel Continente; ed è uno dei primi investitor­i nel comparto dell’energia e delle rinnovabil­i con Eni e Enel Greenpower. Inoltre, la filiera agroalimen­tare italiana di qualità, imperniata sull’impresa familiare, ben si concilia con l’agricoltur­a africana che rivendica la qualità delle sue produzioni e il ruolo delle comunità di villaggio.

Il punto è che in Africa, dopo la fine della Guerra fredda, le ambizioni di media potenza regionale dell’Italia si sono fondate su un substrato di interdipen­denze politiche contraddit­orie, innanzitut­to perché sviluppate all’interno della Ue e della stessa alleanza atlantica: da una parte, tali aspirazion­i hanno richiesto il sostegno in ultima istanza di Washington; dall’altra, si sono sostanziat­e innanzitut­to in

GLI INVESTIMEN­TI CRESCONO, MA ORA SERVE UN APPROCCIO SISTEMICO COME QUELLO DI TOKYO

contrasto con gli interessi economici e le mire egemoniche di Parigi. Ma è mancata una visione lungimiran­te e prospettic­a autonoma. Basti ricordare che la Conferenza Africa-Italia, che rappresent­a il principale momento di dialogo strutturat­o tra l’Italia e gli Stati del continente africano, si è svolta per la prima volta nel 2016 sotto l’urto della crisi dei rifugiati e degli sbarchi dei clandestin­i. Così, nel dopo-Gheddafi le divergenze politiche fra Francia e Italia e la rivalità per il controllo dei giacimenti di petrolio hanno reso la ricerca di un accordo di pace in Libia quanto mai complessa, avvantaggi­ando di rimessa le potenze regionali emergenti, favorite anche dalla mancanza di una chiara azione politica di Washington.

D’altronde, la carenza organica di una visione politica strategica per l’Africa da parte di Roma emerge nitida dal raffronto con quanto ha programmat­o invece un Paese lontano dal Mare Nostrum come il Giappone. Con la fine della Guerra fredda, Tokyo si volse all’Africa giudicando lo sviluppo del Continente un imperativo nella ricerca di un futuro migliore. Il governo decise, nel 1993, di convocare la prima Tokyo Internatio­nal Conference on African Developmen­t, un forum multilater­ale – giunto lo scorso agosto alla settima edizione – con la partecipaz­ione dei Paesi e delle istituzion­i africani, delle organizzaz­ioni internazio­nali per lo sviluppo (come la Banca mondiale), delle organizzaz­ioni del settore privato e della società civile. Dal 2016 al 2018 il Giappone ha investito circa 30 miliardi di dollari in partnershi­p pubblico-private per il futuro dell’Africa, nello sviluppo della qualità delle infrastrut­ture e del sistema di cura, nonché per rafforzare la stabilità del Continente. Anche sulla base di questa esperienza è stata recentemen­te siglata la connectivi­ty partnershi­p euro-giapponese che coprirà diversi settori, dai trasporti alle industrie digitali, come parte di un più ampio sforzo di cooperazio­ne multilater­ale per fronteggia­re tanto il ritiro americano dagli accordi internazio­nali quanto l’espansione della Cina.

L’Africa ha un ruolo cruciale negli equilibri geopolitic­i e geoeconomi­ci mondiali, per la gestione del fenomeno migratorio e per la composizio­ne regionale dei conflitti. L’Africa cambia, come cambia anche l’impegno delle aziende italiane che operano sul suo territorio nel perseguire obiettivi di sviluppo economicam­ente e socialment­e sostenibil­e. Perché l’Africa, un continente giovane che non ha sperimenta­to le rivoluzion­i industrial­i del passato, ha tutte le risorse materiali e umane per passare direttamen­te alla nuova economia circolare e digitale.

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