Ritenuti fondati i profili di incostituzionalità posti al «cuore stesso del concetto di stato di diritto»
rosa di questioni di costituzionalità è stata restituita ai giudici che le avevano sollevate (con decisione del 26 febbraio), chiedendogli di valutare la perdurante rilevanza – o meno – nei rispettivi giudizi.
Si era infatti da costoro posta in dubbio – in modo del tutto condivisibile – la «ragionevolezza intrinseca» della scelta legislativa di includere i reati contro la Pa nel famigerato catalogo dell’articolo 4 bis, con una scelta che finisce con omologarli ai reati di mafia e terrorismo.
La questione – ancora aperta – è seria e grave, specie se la si analizza al metro – rigoroso – della più recente giurisprudenza costituzionale (da ultimo, la sentenza n. 253 del 2019, sul cosiddetto ergastolo ostativo); e meriterà dunque di essere riproposta.
Sin da subito, forse: anche, cioè, in relazione alle modifiche concernenti gli istituti – come appunto i permessi premio e il lavoro all’esterno – che sono stati sottratti alla garanzia dell’irretroattività, e dunque oggetto di modifiche peggiorative immediatamente applicabili (sempre che, chiarisce ancora la Corte, non fossero già maturati, prima dell’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, i presupposti per l’ottenimento di tali benefici, perché a ciò osterebbero, ancora una volta, i principi di eguaglianza e del finalismo rieducativo della pena).
Anche in questi casi, la presunzione legislativa di pericolosità che giustificherebbe il più severo regime – pur ritoccato dalla Corte con la sentenza n. 253 del 2019 – sembra non avere alcun fondamento empirico, e la collaborazione richiesta tanto curiosa quanto inutile: con le conseguenti ricadute in ordine alla (ir-)ragionevolezza del bilanciamento con la finalità rieducativa della pena, un principio mai “sacrificabile” – secondo la sentenza n. 149 del 2018 – a cui proprio permessi premio e lavoro all’esterno sono eminentemente ispirati.
Stupisce non poco, peraltro, che mentre le Sezioni Unite della Cassazione saranno presto chiamate a decidere se nei 3 mq di «spazio minimo disponibile» da garantire ad ogni detenuto debba essere computato (o escluso) lo spazio occupato nella cella dal letto (singolo o “a castello”) e dal mobilio – giocandosi ormai la partita del rispetto dell’articolo 3 della Cedu sul filo dei centimetri – il legislatore continui ad attingere a piene mani alla “risorsa scarsa” del carcere, quasi inteso come strumento di “vendetta sociale”, con scelte irrispettose di ogni ordine di ragione e, prima e più in alto, del principio secondo il quale la privazione della libertà è legittima solo se limitata al «minimo sacrifico necessario», e solo se impellenti ed oggettive ragioni impongano di preferire il regime custodiale rispetto ad alternative extramurarie più congeniali all’istanza rieducativa. Professore ordinario
di Diritto penale Università di Bologna