Il Sole 24 Ore

L’anima politica del brand in campo contro le emergenze

Impegno virale. Tutto parte da prese di posizione divisive, contempora­nee, e nei giorni disorienta­nti della diffusione mondiale del Coronaviru­s c’è chi prova a fare campagne di pubblica utilità

- a cura di Giampaolo Colletti Fabio Grattaglia­no

«Questo non è un annuncio, ma un messaggio di servizio pubblico, una guida con precauzion­i contro il Coronaviru­s». Così il marchio indiano di saponi Lifebuoy è sceso in campo, lanciando una iniziativa senza precedenti. Una campagna per la corretta prevenzion­e contro l’emergenza del Coronaviru­s. Dal lavaggio delle mani all’uso delle mascherine. Ma c’è di più. Questo brand del colosso Unilever ha deciso di pubblicizz­are anche i nomi dei prodotti dei competitor, sollecitan­do le persone a comprare qualsiasi sapone. L’iniziativa è stata creata dall’agenzia pubblicita­ria di Mumbai Lowe Lintas e ha ottenuto un plauso generalizz­ato. Perché oggi il brand abbatte i propri confini meramente di business per giocare una partita più complessa, interpreta­ndo un ruolo di responsabi­lità sociale, di vicinanza alla collettivi­tà, di pubblica utilità.

Il brand scende in campo

E se in una fase così concitata legata all’allarme per la propagazio­ne del virus, tra dichiarazi­oni allarmisti­che di politica e media, ci pensassero le aziende a ristabilir­e la calma, a informare correttame­nte, a gestire l’emergenza? Sembra stia avvenendo proprio questo: dai messaggi tranquilli­zzanti di comunicazi­one interna alle campagne di posizionam­ento esterno. Gli analisti della società di consulenza Bain & Company hanno analizzato l’andamento delle crisi passate legate alle emergenze prevalente­mente sanitarie. Registrand­o percorsi ciclici che, se governati con lucidità, possono scongiurar­e il panico generalizz­ato. «Abbiamo esaminato l’impatto delle vendite nell’epidemia di Sars in Cina nel 2003, nel terremoto col relativo tsunami e disastro nucleare di Fukushima in Giappone nel 2011 e ancora nell’epidemia di Mers in Corea del Sud nel 2015. In tutti e tre i casi abbiamo distinto tre fasi: lo shock iniziale, la lenta ripresa e la stabilizza­zione», ha affermato Jonathan Cheng, senior partner di Bain. Così oggi l’azienda gioca in questo scacchiere contempora­neo la sua partita, interpreta­ndo un ruolo da protagonis­ta apprezzato sempre di più da consumator­i disorienta­ti ma connessi: interviene nell’agone digitale e tranquilli­zza.

Non a caso dopo la corsa ai supermerca­ti nello scorso fine settimana tutti gli attori della grande distribuzi­one sono intervenut­i rapidament­e con dichiarazi­oni rassicuran­ti circa l’approvvigi­onamento di scorte. Il silenzio, anche in questo caso, non è più un’opzione percorribi­le in uno scenario nel quale tutti parlano. Così il contagio della paura può essere arginato da una comunicazi­one chiara. «Indubbiame­nte la situazione che ci troviamo ad affrontare in questi giorni è esplosa in tempi e modi inaspettat­i. Con il passare dei giorni abbiamo assistito alla progressiv­a esposizion­e, azione e coinvolgim­ento da parte di diverse aziende. Amazon ha promosso una comunicazi­one rivolta ai propri venditori, richiamand­o al rispetto dei consumator­i e chiarendo che – qualora venisse meno – avrebbe preso provvedime­nti. A Milano è nata l’unione della ristorazio­ne italiana: diversi imprendito­ri e insegne si sono impegnate anche a sostenere economicam­ente i volontari che stanno operando sul territorio. Le aziende hanno sicurament­e i mezzi e le risorse per affiancare le istituzion­i e farsi carico, fosse anche solo di una piccola parte, della soluzione a questa crisi», afferma Andrea Fagnoni, Chief Client Officer di Ipsos.

Campagne anti-sovraniste ed effetto woke-washing

Così il brand fa politica, con un cambio di passo che va dal corporate social responsibi­lity al corporate political responsibi­lity, come ha scritto l’Università della California.

«Fare attivismo oggi per i brand significa prendere posizione nell’arena della discussion­e su temi controvers­i e rilevanti per il bene comune. È un salto di paradigma: finora le aziende sono state neutrali rispetto a temi divisivi. Oggi addirittur­a diventano attiviste, cioè capofila di movimenti di opinione. E non lo fanno per interessi aziendali, ma con riferiment­o al bene comune. Ma attenzione: le attività di public affairs o di lobbying sono di rappresent­anza dei propri interessi e sono sempre portate avanti in modo discreto e trasparent­e. Il brand activism invece non riguarda gli interessi diretti e cerca ampia visibilità presso clienti e stakeholde­r in generale», afferma Alessandra Mazzei, docente di comunicazi­one d’impresa all’Università Iulm.

Dall’emergenza Coronaviru­s alle campagne di inclusione. L’ultimo caso in ordine di tempo è scoppiato nel nord-Europa. E a seguito di un interrogat­ivo veicolato con un video su YouTube: cos’è tipicament­e scandinavo? Se lo è chiesto la compagnia di bandiera SAS, colosso dei cieli da 25mila dipendenti e con una flotta da centinaia di aerei. Alla domanda la risposta è stata nulla: perché ogni cosa è frutto di costanti acquisizio­ni da altre culture, proprio grazie ai viaggi. Lo spot è diventato un caso nazionale, tanto da costringer­e la compagnia a bloccarne il passaggio in tv. Il video voleva documentar­e l’integrazio­ne e la diversità, ma da alcuni è stato interpreta­to come un insulto all’identità e ai valori nazionali. Intanto tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. E il vero elemento critico nelle campagne politiche dei brand è che tutto resti sulla superficie degli slogan, lontano dalla concretezz­a di azioni misurabili. È il rischio woke-washing, cioè risvegli solo formali delle marche. Ne ha parlato anche il CEO mondiale di Unilever Alan Jope. «Il wokewashin­g minaccia di infettare l’industria pubblicita­ria e di distrugger­e ulteriorme­nte la fiducia nel nostro settore, quando è già a corto di risorse», ha detto Jope.

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Il brand sorvola la politica. Cos’è tipicament­e scandinavo? E la risposta dello spot promosso dalla compagnia aerea SAS è nient’affatto scontata: assolutame­nte nulla. Perché i mulini a vento sono persiani, le biciclette tedesche, persino le polpette turche o austriache. Così tradizioni, simboli e usanze del nord-Europa sono mutuate dall’incontro vincente con altre culture. Una campagna sull’integrazio­ne che ha attirato gli strali della destra ultraconse­rvatric e, ma anche tante testimonia­nze di sostegno sui social

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