L’anima politica del brand in campo contro le emergenze
Impegno virale. Tutto parte da prese di posizione divisive, contemporanee, e nei giorni disorientanti della diffusione mondiale del Coronavirus c’è chi prova a fare campagne di pubblica utilità
«Questo non è un annuncio, ma un messaggio di servizio pubblico, una guida con precauzioni contro il Coronavirus». Così il marchio indiano di saponi Lifebuoy è sceso in campo, lanciando una iniziativa senza precedenti. Una campagna per la corretta prevenzione contro l’emergenza del Coronavirus. Dal lavaggio delle mani all’uso delle mascherine. Ma c’è di più. Questo brand del colosso Unilever ha deciso di pubblicizzare anche i nomi dei prodotti dei competitor, sollecitando le persone a comprare qualsiasi sapone. L’iniziativa è stata creata dall’agenzia pubblicitaria di Mumbai Lowe Lintas e ha ottenuto un plauso generalizzato. Perché oggi il brand abbatte i propri confini meramente di business per giocare una partita più complessa, interpretando un ruolo di responsabilità sociale, di vicinanza alla collettività, di pubblica utilità.
Il brand scende in campo
E se in una fase così concitata legata all’allarme per la propagazione del virus, tra dichiarazioni allarmistiche di politica e media, ci pensassero le aziende a ristabilire la calma, a informare correttamente, a gestire l’emergenza? Sembra stia avvenendo proprio questo: dai messaggi tranquillizzanti di comunicazione interna alle campagne di posizionamento esterno. Gli analisti della società di consulenza Bain & Company hanno analizzato l’andamento delle crisi passate legate alle emergenze prevalentemente sanitarie. Registrando percorsi ciclici che, se governati con lucidità, possono scongiurare il panico generalizzato. «Abbiamo esaminato l’impatto delle vendite nell’epidemia di Sars in Cina nel 2003, nel terremoto col relativo tsunami e disastro nucleare di Fukushima in Giappone nel 2011 e ancora nell’epidemia di Mers in Corea del Sud nel 2015. In tutti e tre i casi abbiamo distinto tre fasi: lo shock iniziale, la lenta ripresa e la stabilizzazione», ha affermato Jonathan Cheng, senior partner di Bain. Così oggi l’azienda gioca in questo scacchiere contemporaneo la sua partita, interpretando un ruolo da protagonista apprezzato sempre di più da consumatori disorientati ma connessi: interviene nell’agone digitale e tranquillizza.
Non a caso dopo la corsa ai supermercati nello scorso fine settimana tutti gli attori della grande distribuzione sono intervenuti rapidamente con dichiarazioni rassicuranti circa l’approvvigionamento di scorte. Il silenzio, anche in questo caso, non è più un’opzione percorribile in uno scenario nel quale tutti parlano. Così il contagio della paura può essere arginato da una comunicazione chiara. «Indubbiamente la situazione che ci troviamo ad affrontare in questi giorni è esplosa in tempi e modi inaspettati. Con il passare dei giorni abbiamo assistito alla progressiva esposizione, azione e coinvolgimento da parte di diverse aziende. Amazon ha promosso una comunicazione rivolta ai propri venditori, richiamando al rispetto dei consumatori e chiarendo che – qualora venisse meno – avrebbe preso provvedimenti. A Milano è nata l’unione della ristorazione italiana: diversi imprenditori e insegne si sono impegnate anche a sostenere economicamente i volontari che stanno operando sul territorio. Le aziende hanno sicuramente i mezzi e le risorse per affiancare le istituzioni e farsi carico, fosse anche solo di una piccola parte, della soluzione a questa crisi», afferma Andrea Fagnoni, Chief Client Officer di Ipsos.
Campagne anti-sovraniste ed effetto woke-washing
Così il brand fa politica, con un cambio di passo che va dal corporate social responsibility al corporate political responsibility, come ha scritto l’Università della California.
«Fare attivismo oggi per i brand significa prendere posizione nell’arena della discussione su temi controversi e rilevanti per il bene comune. È un salto di paradigma: finora le aziende sono state neutrali rispetto a temi divisivi. Oggi addirittura diventano attiviste, cioè capofila di movimenti di opinione. E non lo fanno per interessi aziendali, ma con riferimento al bene comune. Ma attenzione: le attività di public affairs o di lobbying sono di rappresentanza dei propri interessi e sono sempre portate avanti in modo discreto e trasparente. Il brand activism invece non riguarda gli interessi diretti e cerca ampia visibilità presso clienti e stakeholder in generale», afferma Alessandra Mazzei, docente di comunicazione d’impresa all’Università Iulm.
Dall’emergenza Coronavirus alle campagne di inclusione. L’ultimo caso in ordine di tempo è scoppiato nel nord-Europa. E a seguito di un interrogativo veicolato con un video su YouTube: cos’è tipicamente scandinavo? Se lo è chiesto la compagnia di bandiera SAS, colosso dei cieli da 25mila dipendenti e con una flotta da centinaia di aerei. Alla domanda la risposta è stata nulla: perché ogni cosa è frutto di costanti acquisizioni da altre culture, proprio grazie ai viaggi. Lo spot è diventato un caso nazionale, tanto da costringere la compagnia a bloccarne il passaggio in tv. Il video voleva documentare l’integrazione e la diversità, ma da alcuni è stato interpretato come un insulto all’identità e ai valori nazionali. Intanto tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. E il vero elemento critico nelle campagne politiche dei brand è che tutto resti sulla superficie degli slogan, lontano dalla concretezza di azioni misurabili. È il rischio woke-washing, cioè risvegli solo formali delle marche. Ne ha parlato anche il CEO mondiale di Unilever Alan Jope. «Il wokewashing minaccia di infettare l’industria pubblicitaria e di distruggere ulteriormente la fiducia nel nostro settore, quando è già a corto di risorse», ha detto Jope.