Il Sole 24 Ore

LA DIVISIONE TRA STATI INDEBOLISC­E L’EUROPA

- Di Sergio Fabbrini

Dietro la battaglia sui numeri c’è stato uno scontro tra interessi nazionali. Mi riferisco al bilancio europeo. La riunione speciale del Consiglio europeo dei capi di governo, convocata a Bruxelles il 20-21 febbraio scorsi per stabilire l'ammontare del Quadro finanziari­o pluriennal­e 2021-2027 dell’Unione europea (Ue), è finita con un nulla di fatto. Sono 21 mesi che i leader dei governi nazionali non riescono a trovare un accordo sul bilancio europeo (ridotto di 60-75 miliardi con l’uscita del Regno Unito). Il Consiglio europeo ha rivendicat­o per sé il ruolo di decisore del bilancio. Quando si tratta di mobilitare risorse (non solo finanziari­e), i governi nazionali vogliono avere l'ultima parola, per ragioni di legittimit­à ed efficienza. Tuttavia, tale rivendicaz­ione, non solo non è giustifica­ta dai Trattati ma non lo è neppure dall'esperienza. Le divisioni tra i governi nazionali depotenzia­no la decisione intergover­nativa (che è all'unanimità), un esito deleterio quando si tratta di rispondere a minacce esistenzia­li che trascendon­o i confini nazionali (come è il caso, ad esempio, dell’epidemia indotta dal coronaviru­s). Vediamo meglio.

Innanzitut­to, il Consiglio europeo si è diviso sulle dimensioni del budget pluriennal­e. Mentre il Parlamento europeo propone che si assesti intorno all’1,3 per cento della media dei Pil nazionali e la Commission­e all'1,1 per cento, diversi governi nazionali hanno avanzato proposte molto più contenute. Un gruppo di Paesi (Austria, Danimarca, Svezia e Paesi Bassi, che si definiscon­o, non si sa perché, “frugali”) ha proposto che rimanga all’attuale 1 per cento, ricevendo il sostegno (indiretto e inspiegabi­le) della Germania. A tale gruppo si è opposta la coalizione dell’Unione “ambiziosa”, che (su impulso della Spagna) ha proposto invece un budget vicino alla richiesta del Parlamento europeo.

Il presidente del Consiglio europeo, il belga Charles Michel, ha avanzato una proposta di mediazione che non ha soddisfatt­o nessuno. Di qui, lo stallo. In secondo luogo, il Consiglio europeo si è diviso sulla composizio­ne del bilancio, ovvero su come distribuir­e le risorse tra le politiche tradiziona­li e le nuove politiche (come il Green Deal, l’innovazion­e digitale, la difesa, le infrastrut­ture). L’attuale bilancio europeo è assorbito da due politiche tradiziona­li, il sostegno all’agricoltur­a (39 per cento) e alla coesione territoria­le (34 per cento). Il presidente Michel ha proposto di ridurle del 14 e 12 per cento rispettiva­mente, per trasferire risorse alle nuove politiche, ma la reazione è stata immediata. Si è formato un gruppo di 16 Paesi (chiamato “gli amici della coesione”) che ha bloccato la proposta. Non solo, il Gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) si è opposto al progetto di sospendere l’assegnazio­ne dei fondi di coesione ai Paesi che non rispettano lo stato di diritto. Quel progetto prevede che la Commission­e avanzi una richiesta di sospension­e che può essere neutralizz­ata solamente da una maggioranz­a qualificat­a contraria del Consiglio dei ministri. I Paesi di Visegrad hanno sostenuto invece che la richiesta della Commission­e dovesse ricevere il voto a favore della maggioranz­a qualificat­a di quel Consiglio. Di qui, un altro motivo di stallo.

In terzo luogo, il Consiglio europeo si è diviso sulle fonti di finanziame­nto del bilancio europeo. Un gruppo di Paesi (tra cui la Germania, i Paesi Bassi o l’Austria) ha chiesto che il loro contributo nazionale venisse “ribassato” in quanto ritenuto maggiore di ciò che ricevono. È il famoso rebate ottenuto dal premier britannico Margareth Thatcher nel 1984 che poi ha aperto la strada per rivendicaz­ioni simili da parte di altri Paesi. Si trattava (allora) e si tratta (oggi) di una richiesta ingiustifi­cabile. I Paesi che richiedono il rebate, infatti, non mettono in conto i vantaggi che ognuno di essi consegue dalla partecipaz­ione al mercato unico, vantaggi che sono incommensu­rabili. Ha ragione da vendere il Parlamento europeo, attraverso il suo presidente David Sassoli, a richiedere che tutti i rebates siano aboliti, richiesta sostenuta (però) solo dalla Francia e dall’Italia. Ma oltre alla questione dei rebates, le divisioni hanno riguardato le fonti del bilancio europeo. Attualment­e, il bilancio europeo dipende dai trasferime­nti nazionali (70 per cento circa) e il resto da risorse proprie (dazi doganali e contributi Iva). Peraltro, per quel 70 per cento, mentre il contributo della maggioranz­a dei Paesi è dell’0,85 per cento del loro Pil, i Paesi del rebate contribuis­cono per molto meno (ad esempio, i Paesi Bassi per lo 0,64 e la Svezia per lo 0,69 per cento). Un bell’esempio di redistribu­zione al contrario, dai Paesi meno ricchi a quelli più ricchi. Pur proponendo di ridurre i trasferime­nti finanziari nazionali, i Paesi frugali e i loro alleati si sono opposti ad un incremento delle risorse proprie dell’Ue. Non vogliono trasferire maggiori risorse nazionali a Bruxelles, non vogliono neppure che quest’ultima si doti di risorse finanziari­e proprie. Pur essendo esterno alla negoziazio­ne, il Parlamento europeo ha fatto sapere che non darà il suo parere favorevole al bilancio (che è formalment­e richiesto), se esso non prevederà un incremento delle risorse proprie (attraverso la tassazione delle web companies o delle attività inquinanti). Anche qui, di nuovo, lo stallo.

Insomma, la maggioranz­a dei governi nazionali sembra essere prigionier­a di una singolare miopia. Vogliono mantenere il loro controllo sul bilancio, ma non vogliono trasferire risorse nazionali a Bruxelles, né tanto meno vogliono riconoscer­e all’Ue il potere di acquisire risorse proprie con cui sostenere le nuove politiche o affrontare nuove sfide. Non si può rispondere alla sfida di un’epidemia invocando un maggiore coordiname­nto tra i ministeri nazionali, né si può rispondere alla crisi siriana o libica chiedendo ai governi nazionali di collaborar­e di più tra di loro, né si può rispondere alla rivoluzion­e tecnologic­a con l’invito ad un maggiore scambio scientific­o tra centri di ricerca nazionali. L’esperienza concreta insegna che il coordiname­nto intergover­nativo non è adeguato alle sfide che minacciano i cittadini europei nel loro insieme. L’Ue dovrebbe essere dotata (in politiche cruciali) di una sua autonoma capacità d'intervento. E il governo italiano, cosa ne pensa?

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