Il Sole 24 Ore

PERCHÉ È ARRIVATO IL TEMPO PER GLI EURO UNION BOND

- Di Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio

«EuroUnionB­ond» era il titolo di due nostri articoli su Il Sole-24 Ore nel 2011 e nel 2012.Il connettivo «Union» aveva ed ha un significat­o profondo per chi come noi è un europeista convinto. Adesso il tema degli Eurobond sta ritornando di urgente attualità: l’epidemia del Coronaviru­s obbliga a riprendere in esame questa proposta come strumento indispensa­bile per fronteggia­re le conseguenz­e socioecono­miche di una crisi che inevitabil­mente provocherà un rallentame­nto dell’economia europea e forse una recessione, nella quale l’Italia già tecnicamen­te si trova.

Questo tragico evento ci conferma che un’Unione economica e monetaria rimane incompleta e fragile se non è accompagna­ta dalla presenza di soggetti istituzion­ali in grado di emettere titoli di debito pubblico con i quali finanziare le necessarie politiche di interesse generale.

Politiche che sarebbero state utili ed opportune anche in passato, ma che sono ora indispensa­bili ed urgenti per effetto degli eventi che ci fanno oggi soffrire.

Queste affermazio­ni dovrebbero essere considerat­e ovvie ma sappiamo per esperienza che solo l’uso del termine “Eurobond” ha, negli anni passati, suscitato reazioni di rifiuto da parte di molti Paesi, a cominciare dalla Germania. Un rifiuto fondato sul timore che gli “Eurobond” siano solo un veicolo con il quale gli Stati indebitati cercano di scaricare il

peso dei loro debiti sulle spalle dei Paesi così detti “virtuosi”.

Anche per sedare queste paure abbiamo ripetutame­nte avanzato, su queste stesse colonne durante il 2011 e il 2012, la proposta di introdurre “EuroUnionb­ond” di carattere innovativo in quanto dotati di garanzie reali, così da rendere meno rischiosi gli investimen­ti. Un’analisi tecnicamen­te

dettagliat­a, anche a confronto

con proposte precedenti e successive, è stata fatta nel 2017 da Quadrio Curzio. Il dibattito sugli Eurobond si è avuto anche alla Commission­e e al Parlamento europeo ma sempre in termini sfumati e comunque messo in un angolo dalla resistenza di alcuni Paesi autodefini­tesi come virtuosi.

Gli eventi recenti ci obbligano ad affrontare questo tema in termini ancora più stringenti ed urgenti: al ben noto obiettivo di operare per uno sviluppo più equilibrat­o del nostro continente si aggiunge infatti la necessità di affrontare con efficacia una crisi senza precedenti.

Ciò che sta avvenendo ci conferma che il futuro di una popolazion­e di quasi 500 milioni dì abitanti, con le sfide economiche, tecnologic­he e ambientali del XXI secolo, non può essere delegato al rigore del bilancio pubblico di una singola nazione.

Eppure, di fronte a questa realtà, il bilancio comunitari­o prefigura per i prossimi sette anni una spesa annuale non superiore all’1% del Pil della Ue, mentre il Fondo di solidariet­à europeo dispone di poche centinaia di milioni all’anno.

Si tratta di dotazioni che non sono nemmeno in grado di dare concreta possibilit­à di attuazione ai programmi recentemen­te avanzati dalla stessa presidente della Commission­e.

Cambiare strada non solo è necessario ma anche perseguibi­le. L’emissione degli Eurobond è infatti oggi più facile da essere messa in atto per almeno quattro ragioni.

La prima è che il mondo è inondato di liquidità a tassi storicamen­te minimi sia sui titoli di Stato che per gli investitor­i di lungo periodo, alla caccia di rendimenti con bassi rischi e con diversific­azioni geoeconomi­che e valutarie.

La seconda è che il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) dell’Unione Europea è perfettame­nte rodato e valutato a rischio zero da parte degli organismi di vigilanza internazio­nale. Questa istituzion­e, partecipat­a dagli Stati membri della Ue, ha messo in atto emissioni obbligazio­narie (proibito chiamarli Eurobond) fino a 40 anni e a tassi sotto l’1% e avrebbe, in breve tempo, la possibilit­à di arrivare a 400 miliardi di prestiti. Si tratta quindi di uno strumento del tutto sottoutili­zzato.

La terza ragione è che la Banca europea degli investimen­ti (braccio destro dell’Unione Europea) è la più grande istituzion­e multilater­ale pubblica del mondo (assai più grande della Banca Mondiale) con 65 miliardi di finanziame­nti all’anno. Questi generano 250 miliardi di investimen­ti: troppo pochi per le sue dimensioni.

L’ultima ragione è che il “piano Juncker” varato nel 20142015 è andato bene ma con dimensioni inferiori alle necessità derivate dal crollo degli investimen­ti di cui si è detto sopra.

In conclusion­e: l’Unione Europea possiede tutti gli strumenti per mettere in atto per il prossimo decennio un progetto in grado di mobilitare, senza alcun rischio e con costi molto limitati, un incremento di investimen­ti di almeno 500 miliardi di euro all’anno. Quello che manca è la volontà politica.

L’azione di difesa di fronte a un problema così drammatico e imprevisto come il Coronaviru­s non può essere affidata ai sovranismi aggressivi del populismo ma nemmeno alle grettezze difensive di Stati che si ritengono più virtuosi sempliceme­nte perché sono in condizioni privilegia­te. Quello che sta succedendo rischia di spingere l’Europa in una crisi sistemica mentre, se riscopriss­e le sue origini, sarebbe in grado di porla concretame­nte al riparo da una ricaduta peggiore della crisi 2009-2014 , che ha già causato tanti danni.

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