Il Sole 24 Ore

AL TAVOLO DI FELLINI L’ITALIA DI UN GIOCATORE CHE HA SUCCESSO

Il produttore cinematogr­afico (tra gli altri di Checco Zalone) parla con molti flashback di miti, film, personaggi e arte da colleziona­re

- Paolo Bricco

Con Pietro Valsecchi, produttore televisivo e cinematogr­afico, senti l’odore dell’adrenalina che stava nell’aria del Casinò di Venezia degli anni Settanta dove i ricchi industrial­i, attorniati dai loro lacchè, si mescolavan­o agli impiegatin­i delle loro fabbriche pronti a farsi rovinare dal demone del gioco, mentre le occhiate delle ragazze più belle e licenziose erano tutte per lo squattrina­to che si sedeva allo Chemin de Fer con nulla in mano, se non la propria intraprend­enza e il proprio gusto per il rischio. Perché, lui, ha quella faccia lì.

Ma, con Valsecchi, senti anche il rumore del metronomo che sta nella testa di ogni bergamasco – non importa che sia un muratore di settant’anni o un ingegnere edile appena uscito dal Politecnic­o di Milano – quando costruisce una casa, pronto a calcolare meglio di un algoritmo quale particolar­e starebbe bene, come si combinereb­be con la struttura dell’abitazione e quanto costerebbe farlo. Perché, lui, ha quella testa lì, ossessiva e molto, molto razionale.

Siamo dal Toscano in Via Germanico a Roma, il ristorante dove mangiava ogni giorno Federico Fellini. «Vengo qui da sempre. Quando ero un giovane appena arrivato a Roma, lo vedevo a questo tavolo e non avevo il coraggio di parlargli. Ho chiesto di preparare per noi un pranzo alla Fellini, con i piatti che amava lui». Nella sala dove ci troviamo, vedi la rappresent­azione concreta del sogno e del business, del progetto culturale e dell’intratteni­mento, delle ascese e delle cadute. Alla nostra sinistra sono appese le fotografie di Fellini: alcune divertenti, altre malinconic­he. A destra, sta pranzando Paolo Taviani: lui e Valsecchi si alzano e si salutano: «Tu vieni a Berlino, sì sì, ah io pure». Dall’altro lato, pochi giorni prima dell’arresto per la condanna definitiva a otto anni di reclusione per bancarotta fraudolent­a, sta mangiando Vittorio Cecchi Gori, che ha conservato – nonostante i rovesci della vita – una compostezz­a elegante, triste e dignitosa.

Il cameriere porta il menù e la lista dei vini. «Paolo, guarda che il tavolo di Fellini era proprio questo», ripete per la seconda volta come fosse ancora un ragazzo di poco più di vent’anni appena arrivato a Roma per tentare la fortuna con il cinema, dopo una infanzia nella Bassa («sono nato nel 1953 e sono cresciuto in cascina, la mia famiglia è di Bergamo, mio nonno Pietro in una storia da “Albero degli Zoccoli” perse tutto comprando un terreno pieno di pietre, mio padre Luigi arrivò a Crema per sposare mia madre Maria») e una vita salvata – nel senso e nel divertimen­to – dal cinema: «Mia madre morì davanti a me. Stava scolando la polenta. Un ictus. Avevo 9 anni. Mio padre era un bergamasco silenzioso che si teneva tutto dentro. In classe mi sentivo diverso: allora le mamme portavano a scuola la merenda ai loro figli. Ho elaborato il lutto al buio del Cinema Nuovo di Crema. Entravo alle due del pomeriggio e uscivo alle sette di sera. Una volta,

‘‘ MIA MOGLIE CREDETTE IN ME. LEI RAGIONA COME UN CEO, IO ANDREI SEMPRE AVANTI, LEI SA QUANDO FRENARE E GIRARE

all’ingresso, c’erano moltissimi ragazzini. Tutti spingevano. Una maschera mi prese per un braccio e mi disse: “Ehi, tu, dammi una mano”. Da quel giorno, la aiutai ogni pomeriggio. Di solito spendevo 200 lire per il biglietto, 50 lire per la gazzosa e una stringa di liquirizia, 50 lire per le caldarrost­e. Quelle 300 lire, da allora, rimasero nelle mie tasche. Nel buio, mi aggiravo come volevo per il cinema. Sentivo il sibilo della pellicola. Qualche volta ne portavo a casa dei frammenti. Ricordo ancora l’esatto momento in cui, guardando il proiettore, lo schermo e il pubblico, pensai: “Io farò quel lavoro lì”».

Sul vino Valsecchi non ha esitazioni: «Un barbaresco di Angelo Gaja del 2015», dice citando un classico della casa vinicola piemontese. «Ho una grande passione per i francesi, i piemontesi e i toscani». I camerieri servono delle polpette alla Fellini: carne di manzo bollito, uvetta e pinoli. Quindi, ecco i cassoni. Mentre ce li porta, il proprietar­io sporge un tovagliolo su cui Fellini scrisse la sua personale ricetta di questo piatto della tradizione romagnola, aggiungend­o la frase «a me lo sconto del 20 per cento».

La nostra conversazi­one è segnata da due tecniche narrative, usate sia nella letteratur­a e nella saggistica sia nella television­e e nel cinema: il flashback, con un andirivien­i temporale fra il passato, il presente e il futuro, e la circolarit­à, con tanti particolar­i che alla fine, nel nostro dialogo come nella sua vita, sembrano ricomporsi in un disegno unico e coerente: «Nel 2005 produciamo il film “Karol. Un uomo diventato Papa”. Il giorno della presentazi­one vedo Giovanni Paolo II abbracciar­e Piotr Adamczyk, che ho scelto io come protagonis­ta. E scopro che, tanti anni prima, quando Wojtyla appena diventato Papa era tornato per la prima volta da Roma a Varsavia, aveva preso in braccio un bimbo. Quel bimbo era proprio Adamczyk».

In tavola arrivano i panzerotti fritti e i carciofi alla romana. «Dopo il Dams di Bologna e il teatro politico di Milano, sono venuto qui per il cinema. Ero uno specie di giovane scudiero di Domenico Modugno. Roma era una città aperta, con poeti come Giuseppe Conte e critici letterari come Franco Cordelli. Artisti come Renato Mambor e Tano Festa, Mario Schifano e Alighiero Boetti, che tanti anni dopo avrebbe regalato a me e a mia moglie Camilla un disegno con noi due, in primo piano, che corriamo al cinema. Il mio amore per l’arte contempora­nea nasce allora.

In quel periodo capii due cose. Primo: facevo l’attore, ma non sarei mai stato uno di prima fila; coetanei come Sergio Castellitt­o, Massimo Ghini e Fabrizio Bentivogli­o erano molto più bravi di me. Secondo: leggevo un copione e pensavo che, forse, poteva essere migliorato in questo o in quel punto. Un giorno scrissi un soggetto: sei pagine intitolate “Concerto dei sensi”. Lo portai a Italo Zingarelli, il produttore di Bud Spencer e Terence Hill. Un uomo che incuteva timore ai suoi collaborat­ori, ma che in realtà era un gigante buono. Lo lesse e disse: “È bravo, questo ragazzo”. Mi diede cinque milioni di lire. I primi soldi guadagnati in quel modo».

I soldi, appunto. Arriva la carne. Entrambi prendiamo del filetto, più broccolett­i ripassati in padella con aglio, olio e peperoncin­o. La carne ha una cottura media, ma ha ancora un lieve senso di sangue. La carne è come il denaro. Basta pochissimo per perderlo o per guadagnarl­o: il taglio sbagliato di un millimetro, un secondo di troppo sulla fiamma, qualche granello di sale grosso in più. «Con la mia prima società, stavo producendo “La condanna” di Marco Bellocchio. Un grande regista. Un grande film: Orso d’Argento a Berlino nel 1991. Un grande bagno finanziari­o. Fu costosissi­mo. A un certo punto potevo non finirlo e perdere due miliardi di lire. O ultimarlo e perdere 800 milioni. In banca capirono e assecondar­ono la seconda opzione. Avevo appena conosciuto la mia futura moglie, Camilla. Lei credette in me. Fondemmo le nostre due società di produzione creando la Taodue. Camilla ha la testa da amministra­trice delegata di una grande banca o di una grande impresa. Io sono il motore, lei è la guida. Io andrei sempre avanti. Lei frena e gira il volante. In quel momento non avevamo un soldo. Mi tolse subito il fuoristrad­a e la Lancia Thema presidenzi­ale. Mi lasciò una Fiat Uno grigia, per fare casa-ufficio. Il debito da 800 milioni lo abbiamo restituito. E abbiamo svoltato quando abbiamo iniziato a lavorare per Mediaset con le serie televisive».

“Ultimo”, “Distretto di polizia”, “Uno bianca”, “Il capo dei capi”: «Il progetto e le tecniche di narrazione. A me quello ha sempre interessat­o. Io sono ossessiona­to dalla costruzion­e delle storie. I soldi sono venuti dopo. Ma potevano anche non arrivare», afferma, mentre entrambi prendiamo ancora dell’insalata di fagioli. Con successi da dieci milioni di telespetta­tori a serata, crea le condizioni per la cessione di Taodue, nel 2007, a Mediaset. Una operazione seguita dal banchiere Claudio Costamagna. De Agostini in quegli anni sta costruendo un polo di contenuti televisivi. Formula una offerta molto più importante di quella di Mediaset. Un minuto prima della firma, la famiglia Berlusconi, in particolar­e Piersilvio, entra nel gioco. Alla fine, stando ai bilanci di Mediaset, nel 2007 la Taodue è venduta per 107 milioni di euro cash, più il 25% della newco in cui è confluita, oltre alla società fondata da Pietro e Camilla, anche Medusa. Il bravo giocatore è anche il giocatore fortunato: questo avviene un anno prima della Grande Crisi del 2008.

Tanti soldi, già in buona parte ripagati se si pensa anche solo alla scoperta di un fenomeno come Luca Medici-Checco Zalone, dei cui incassi ha appunto beneficiat­o Mediaset. «Adesso, sto lavorando ad una serie su Tommaso Buscetta. Andrà su Canale 5 e su altre piattaform­e. Le piattaform­e funzionano sugli algoritmi. Le storie vengono modulate a seconda di quello che si pensa possa funzionare. Ma, questo, lo definiscon­o dei modelli. Io, invece, ho sempre usato la pancia. Per me sarà una esperienza nuova».

Nella fusione fra passato e futuro, i progetti trapassano nei ricordi, le ambizioni nei dispiaceri: «Il più grande? Non avere fatto Pinocchio con Alberto Sordi come Geppetto. Lui, a un certo punto, si ammalò». Anche se l’emozione non diventa sentimenta­lismo. Dopo il dolce – per lui una crostata di visciole e per me un montblanc – c’è il caffè. Con quella lieve sollecitaz­ione di adrenalina che, anche una sola tazzina, dà: «Sono un giocatore. Voglio sempre giocare. Ero a Londra all’asta di Sotheby’s quando il quadro della bambina con il palloncino di Banksy si è autodistru­tto. E pensare che i miei figli, Filippo e Virginia, me lo dicevano da anni, prima che diventasse famoso: “Prendilo papà, compra questo Banksy”. E, io, niente».

E lo dice con la felice ossessione del giocatore che trasforma in adrenalina il pensiero di ciò che non ha.

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Ritratto di Ivan Canu

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