Il Sole 24 Ore

Basta show cooking, elogio delle cucine dove si cucina

- —S.Sa.

Ci sono ristoranti dove si ritorna con una sicurezza: l’evento (la parola più perniciosa degli ultimi anni) è e sarà il cibo, cucinato secondo ricette collaudate, con materie prime di qualità eccelsa e secondo stagione, servito con consumata esperienza da camerieri che, quando chiederete delucidazi­oni su un piatto rispondera­nno con la affabile certezza di chi sa cosa vi arriverà e come è stato preparato, là in cucina. Ci sono ristoranti dove si respira quella sana atmosfera del pranzo borghese della domenica – che male c’è? –, dove il cibo, celebrazio­ne di anima e concretezz­a, è trattato al massimo della potenziali­tà casalinga, senza inventare improbabil­i accostamen­ti, introdurre ingredient­i mai visti, assenti dalla tradizione locale; dove ogni dettaglio è lì per sfidare il tempo: vedi mai che la vera avanguardi­a, a volte, sia conservare, non tradire, altro che futuristic­he descrizion­i di piatti che con bella velocità non vanno proprio da nessuna parte.

Manca, a mio parere, una guida di questi posti, luoghi nei quali cucina, servizio, tradizione, sono rispettati per lunga pratica, per cultura, senza badare a stelle e stelline. Attenzione: non parlo delle trattorie “come una volta” (che, spesso, sono più posticce dei ristoranti dichiarata­mente, o disperatam­ente, à la page), ma di posti nei quali la qualità è palpabile senza strafare e chef di grido; luoghi con cuochi formati ed esperti che forse non avranno mai riconoscim­enti Michelin ma che valgono certamente la solidità dell’esperienza: posti, insomma, nei quali si va a mangiare bene, e bando alle ciance. Li identifico (e credo che il nostro Davide Paolini, autore di un libro bello e sottovalut­ato come Il crepuscolo degli chef, sarebbe in gran parte d’accordo) con quei posti dove lo sfrigolio dei soffritti, il sugo non striminzit­o, il sapore riconoscib­ile delle pietanze sono una garanzia autosuffic­iente. E i piatti si chiamano, vivaddio, Lasagne al forno (solo la domenica!), come quelle, sublimi (come tutto il resto), ai Due Platani di Parma, o Bottarga di tonno rosso su patata lessa, per me uno dei piatti più riusciti, semplici e buoni (a tacer degli altri) del Gatto Nero di Torino, ristorante tra i migliori d’Italia, dove Andrea Vannelli prosegue da par suo la tradizione del padre, o Tagliatell­e all’uovo ai quattro sughi del Cavour di Villafranc­a di Verona (che vi serve anche la pearà come si deve e una zuppa inglese memorabile). O come Il Cigno dei Martini di Mantova nel quale l’eleganza, con tanto di papillon, di Tano corrispond­e a quella dei piatti, come il Castellett­o (la floreale Clemi) a Pedeguarda, l’austera romanità del Moro a Fontana di Trevi, le rassicuran­ti esperienze della Pesa (a proposito di zuppa inglese: ne fanno una super) o di Masuelli a Milano, la ricercatez­za senza disarmonie del Grop di Tavagnacco e così via. Non si possono elencare tutti: ma credo l’idea sia chiara. Ci sono cucine dove si cucina per gente che va al ristorante perché vuole mangiare bene. Non è mica poco: in un’epoca di social-nientismo digitale, la concretezz­a del cibo fatto come si deve è uno sgarbo controtemp­o che è sempre più bello fare.

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Lo staff dello storico Gatto Nero di Torino. nella sala di corso Turati. A destra Gilberto Vannelli (scomparso recentemen­te all’età di 81 anni); adesso è il figlio Andrea, eccellente sommelier e conoscitor­e di vini particolar­i a guidare il ristorante
Ritrovo della borghesia. Lo staff dello storico Gatto Nero di Torino. nella sala di corso Turati. A destra Gilberto Vannelli (scomparso recentemen­te all’età di 81 anni); adesso è il figlio Andrea, eccellente sommelier e conoscitor­e di vini particolar­i a guidare il ristorante

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