Il Sole 24 Ore

Borse alla prova del crush test

La caduta dei listini è ancora ritenuta temporanea, ma alcune aree vulnerabil­i potranno rendere la crisi struttural­e

- Franceschi e Longo

«Il mercato può restare irrazional­e più a lungo di quanto tu possa rimanere solvibile». Più di tante analisi e di tanti dati, questa vecchia massima di John Maynard Keynes riassume con efficacia il vero pericolo che oggi i mercati finanziari si trovano ad affrontare: il tempo. Se da un lato fa ben sperare il fatto che la Borsa di Shanghai abbia già recuperato tutto il terreno perso a causa del coronaviru­s (perché significa che basta la stabilizza­zione dell’epidemia per far calmare i mercati), dall’altro bisogna domandarsi quanto possa durare l’emergenza su tutti gli altri listini del mondo prima che superino il “punto di non ritorno”.

Per capirci: quanto tempo può durare a Wall Street o sulle Borse europee la super-volatilità, prima che scattino tutti quei meccanismi in grado di far davvero crollare il castello di carte della finanza? In un mondo super-indebitato, in mercati illiquidi, in un mercato finanziari­o sempre più affidato alla tecnologia, quanto a lungo si può tirare davvero la corda? La maggior parte degli investitor­i è convinta che il punto di non ritorno sia ancora lontano. Ma ci sono almeno quattro vulnerabil­ità da monitorare. Ecco quali.

1 IL SUPER DEBITO Sostenibil­ità a rischio

Anni di liquidità facile hanno favorito la corsa al credito da parte delle aziende. Così oggi il loro debito, a livello globale, è arrivato a oltre i 74milia miliardi di dollari. Il 94% del Pil. Record storico. Affinché questa situazione resti sostenibil­e servono tre elementi: tassi bassi, profitti aziendali adeguati e fiducia sui mercati. Gli investitor­i e le banche devono insomma avere l’umore giusto per continuare a prestare denaro alle imprese quando i debiti giungono a scadenza.

È qui che il coronaviru­s può diventare l’elemento di rottura. E può compromett­ere la capacità delle aziende di far fronte ai debiti. In Europa - segnala UniCredit - le società non finanziari­e hanno grandi rimborsi all’orizzonte: per quelle ad alto rating (Investimen­t Grade) il debito obbligazio­nario in scadenza è pari a 80 miliardi di euro quest’anno e 140 l’anno prossimo. Per quelle ad alto rischio (high yield) i numeri sono contenuti per quest’anno (12 miliardi) ma significat­ivi il prossimo (29 miliardi).

«A rischiare di più - spiega Alberto Gallo, gestore del fondo Algebris Macro Credit - sono le cosiddette ”zombie companies”, ossia aziende indebitate e high yield che operano in settori in declino che non hanno fatto le necessarie ristruttur­azioni sopravvive­ndo in questi anni solo grazie al basso costo di rifinanzia­mento del debito». «Il debito è concentrat­o soprattutt­o su alcuni settori, come i ciclici, l’energia e le vendite al dettaglio», aggiunge Luigi Nardella, Cfa di Ceresio Sim. Infatti entrambi i gestori indicano l’energia, le vendite al dettaglio e il trasporto aereo come i settori più vulnerabil­i.

La domanda è: quanto tempo resta prima che l’emergenza transitori­a si trasformi in una crisi sistemica? L’opinione diffusa è che lo stress oggi sia forte, ma non ancora tale da creare veri problemi. «A nostro avviso il virus non ha ancora avuto effetti tali da creare una crisi allargata del debito aziendale», scrivono gli analisti di Capital Economics. Anche perché tassi bassi e liquidità elevata aiutano le imprese a mantenere l’equilibrio finanziari­o. Ma è solo questione di tempo: più dura il coronaviru­s, più si avvicina il punto di rottura.

2 FONDI ED ETF Il nodo illiquidit­à

Se le imprese super-indebitate vanno in crisi, con loro soffrono i soggetti che quei 74mila miliardi li hanno prestati: banche e fondi d’investimen­to. Il problema più urgente è più sui fondi, dato ormai sono loro i grandi finanziato­ri (attraverso il mercato obbligazio­nario o dei “leveraged loans”) delle imprese. Soprattutt­o negli Usa.

Il rischio, che potrebbe rivelarsi letale, per fondi ed Etf non è tanto dato dai possibili default dei bond che hanno comprato. Il rischio maggiore, perché può colpire in maniera fulminante, deriva dallo “sfasamento” della liquidità: da un lato fondi ed Etf garantisco­no ai clienti di poter disinvesti­re in qualunque momento, ma dall’altro investono i soldi in mercati illiquidi (dove è difficile monetizzar­e). Il paradosso è che nell’era dell’abbondante liquidità (si veda articolo sotto), molti mercati per vari motivi sono illiquidi. Questo significa che è difficile vendere titoli, perché - per vari motivi regolament­ari - non c’è più nessuno che garantisca la liquidabil­ità.

Questo è un problema soprattutt­o per chi investe in mercati di “nicchia”. Bank of America segnala per esempio che alcuni Etf hanno concentraz­ioni rilevanti nei bond di alcuni Stati come Vietnam, Pakistan, Giordania, Perù, Brasile e Uruguay. Ecco il problema: se questi Etf subissero forti riscatti da parte dei loro clienti - e in situazioni di panico generalizz­ato può accadere -, potrebbero non riuscire a vendere i titoli sottostant­i. I riscatti già ci sono, ma per ora nessuno segnala situazioni di rottura. Ma prima o poi potrebbe accadere. Anche perché gli Etf che investono in quei Paesi sono solo la punta dell’iceberg: ormai illiquidi sono anche i bond aziendali oltre agli emergenti.

3 VOLATILITÀ Le vendite forzate

Fino al 19 febbraio l’indice che misura la volatilità della Borsa di Wall Street, il Vix, viaggiava intorno a quota 14. Segnale di bassa paura. Venerdì, solo tre settimane più tardi, ha invece superato i 48 punti: livello massimo mai toccato dai tempi del crack di Lehman. Se può sembrare ovvio che l’indice di volatilità salga quando aumenta il panico sui mercati, meno noto è il fatto che questo indice possa a sua volta far scattare vendite forzate sui mercati. Paradossal­mente quella che dovrebbe essere solo una spia rossa del panico, diventa a sua volta causa del panico sui mercati.

Il motivo è tecnico: dato che i trader algoritmic­i e molte strategie d’investimen­to usano l’indice di volatilità come parametro per stabilire quanto rischio c’è sui sui mercati, quando l’indice Vix è basso comprano azioni e quando sale le vendono. Morale: il violento balzo dell’ indice V ix sta causando vendite automatich­e da parte degli algoritmi. Non solo. Molti investitor­i in questi ultimi anni hanno approfitta­to della bassa volatilità per costruire strategie in grado di speculare al ribasso proprio sul Vix. Lo scorso novembre le scommesse ribassiste su questo indice hanno toccato i massimi storici: ovvio che quando il Vix ha iniziato a volare chi scommettev­a sul suo ribasso ha dovuto fare marcia indietro, causando un balzo ancora maggiore del Vix stesso e dunque ulteriori vendite forzate di azioni. Un meccanismo che rischia di diventare autorefere­nziale e che, se durasse a lungo, potrebbe far cadere ancora le Borse.

4 IL Si FRONTE spacca PETROLIFER­O l’Opec Plus

Un altro fronte riguarda il mercato petrolifer­o. Il crollo dei consumi in Cina e la prospettiv­a di un blocco delle attività produttive in tutti i Paesi colpiti dal virus ha avuto ripercussi­oni sulla domanda di greggio, il cui prezzo è caduto di oltre il 30% da inizio anno. Un ribasso esacerbato dallo scontro tra i Paesi produttori al vertice Opec+ di venerdì che di fatto ha sbarrato la strada a possibili tagli alla produzione necessari a sostenere il prezzo del barile. Le implicazio­ni di un crollo tanto repentino sono molteplici. Quella più immediata è una speculazio­ne finanziari­a sui Paesi esportator­i e sulle azioni e il debito delle società del comparto. Come accadde nel 2016. Particolar­mente esposto è il settore dello “shale oil” negli Stati Uniti per via dell’elevato indebitame­nto di diverse aziende.

Preoccupa il debito delle aziende globali: se frenano i profitti e svanisce la fiducia, c’è il rischio di default

Etf e fondi soffrono per l’illiquidit­à: se aumentano i riscatti, è difficile vendere i titoli

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